Quando si parla di rock ‘n’ roll ruspante, rumoroso e selvaggio, sarebbe delittuoso non citare l’Australia e la sua (in)gloriosa tradizione che va avanti da oltre mezzo secolo: per almeno due decenni considerata una sorta di “Terra promessa” del R’N’R, il continente oceanico (da non dimenticare la scena della Nuova Zelanda e l’importanza della Flying Nun records) dai Sixties a oggi ci ha regalato band strepitose, in un percorso rovente, aspro e fragoroso che va dai Missing Links agli Easybeats, dai Creatures ai Black Diamond, passando per Radio Birdman e i Saints, dagli Scientists ai Boys Next Door/Birthday Party (escludendo il Nick Cave solista, già in fase berlinese-inglese) dai Feedtime agli Stems, dai Celibate Rifles a Rowland S. Howard, dai Lipstick Killers ai Lime Spiders, dagli Screaming Tribesmen ai New Christs agli Hoodoo Gurus, dai Go-Betweens ai Beasts of Bourbon, dagli Hard-Ons ai Died Pretty and so on, fino ad arrivare ai giorni nostri con Chats, Civic, The Unknowns, Gee Tee, Stiff Richards, i camaleontici King Gizzard & the Lizard Wizard e altre belle realtà. E quest’anno il panorama aussie ha visto il ritorno discografico dei veterani Cosmic Psychos.
A quattro anni dal precedente full length “Mountain of piss“, infatti, Ross Knight (basso e voce) e John “Mad Macka” McKeering (chitarra e voce) celebrano i quarant’anni di percorso musicale dell’ensemble di Melbourne (che si è raccontato nel documentario “Blokes you can trust“) pubblicando un nuovo album, il loro dodicesimo complessivo – su Subway Records – “I really like beer“, un titolo che è tutto un programma – celebre la loro “battaglia” in favore della distribuzione della birra gratis per tutti – la loro definitiva dichiarazione d’amore nei confronti della birra, da sempre la bevanda e il motore fondamentale che alimenta l’attitudine punk e il loro pub rock “proto-grunge”, uno Yob rock che, con la sua miscela di punk, glam e hard rock ha fatto scuola nell’underground, ispirando anche diverse band della scena alternative statunitense di fine Eighties (su tutti i Mudhoney, oltre a influenzare Buzz Osborne dei Melvins e Kurt Cobain dei Nirvana).
Registrato con Paul Maybury ai Secret Location Studios (e con l’ausilio di due batteristi, Dean Muller e BC Michaels, con quest’ultimo che accompagnerà i nostri anche in un segmento del tour a supporto dell’album, che toccherà anche l’Italia in una data nel 2026, e per un certo numero di date vedrà anche Dan Peters sedersi alle pelli) “I really like beer” non si discosta dal loro stile goliardico, ruvido e stradaiolo, e ci spilla tutto il suo furore sonico in mezz’ora da spararsi “alla spina” a volume sconsiderato. In alto i boccali per brindare con “This could be the greatest beer of my life” , con la title track “filtrata” in apertura e chiusura del disco, con “10 can trip” che avrebbe fatto la felicità di Lemmy col suo incedere punk ‘n’ roll Motörheadiano, col grunge non filtrato alla Melvins/TAD/Flipper di “Grunge thief“, “Fly in my shed“, “Do it again“, “Have one more“, “Hey Mick you’re sick” e “Spaghetti Weston“, e brevi schegge ubriache come “15 footer” e “Don’t feed me jelly“.
Rock ‘n’ roll true-to-the-bone, fatto dalla working class per la working class, de panza e de sostanza, perfettamente esemplificato dal ventre alcoolico che campeggia sulla copertina di “I really like beer“, che potrà sembrare “antiestetico”, ma testimonia pienamente la genuinità di un rock ‘n’ roll senza fronzoli né compromessi suonato da gente dal background credibile, a cui non è mai importato nulla del “successo commerciale” e del diventare “famosi”, ma che il suo bel posto nella storia del rock indipendente se lo è comunque ritagliato lo stesso, divertendosi (Knight si è anche tolto lo sfizio di condurre un podcast) e diffondendo il Verbo del R’N’R in giro per il mondo, pur portandosi addosso le inevitabili cicatrici che quarant’anni presentano nel conto della vita (rest easy, Robbie “Rocket” Watts). E ora tutti a sbronzarci al pub.










