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Recensione : Melvins – Thunderball

Nonostante tutto, a chi vi scrive, tutto sommato, piace avere l’età che ha (a metà del viaggio, non più ragazzino, da poco entrato negli “-anta” da “neo-boomer”) ed è contento di essere cresciuto in un’epoca in cui non c’era ancora la follia disgregante dei social network odierni, i telefoni cellulari erano ancora grossi come mattoni e servivano solo per telefonare (senza app invasive della privacy) e i computer erano solo fissi e grandi come scatoloni, col Web ancora in fasce, la connessione internet col modem analogico 56K che impiegava dieci minuti a caricare una pagina (di conseguenza, le bollette telefoniche erano un bagno di sangue) la realtà la si conosceva sul campo e non c’erano ancora Google e Wikipedia a rendere la gente tuttologa. Contento di avere scoperto, in età adolescenziale, la passione per la musica attraverso gli scambi di cd e cassette che si facevano con altri “sbandati” a scuola, e proprio attraverso quella condivisione di sete di novità arrivò per il sottoscritto, verso i 15 anni, la scintilla di eccitazione generata dall’ascolto dei Nirvana.

Sì, i Nirvana, quella famosa band di Aberdeen/Seattle verso cui tanti musicofili gettano merda, perché in certi ambienti “alternativi” fa figo e devono recitare la parte degli elitaristi di stocazzo. I Nirvana li ascolto ancora oggi, sono stati la band che mi ha fatto prendere sul serio la musica e sono stati importanti per iniziare, come apripista per poi coltivare la mia passione da autodidatta con vorace curiosità, partendo da loro per poi addentrarmi nei meandri dell’universo del rock ‘n’ roll, in una ricerca che dura da oltre un ventennio e non è ancora finita. Certo, ci vogliono anche costanza e perseveranza: se non si ha quella “fiamma” dentro, a bruciare non è una passione vera ma una moda passeggera, e infatti molte persone non vanno oltre l’ascolto superficiale e si fermano ai soliti cinque-sei nomi famosi.

Avercene oggi di band come i Nirvana (che attraverso Cobain hanno portato alle masse un chiaro retaggio sonoro ereditato dall’hardcore punk) nel mainstream a ispirare i ragazzini di tutto il mondo, come il me stesso sbarbatello di venticinque anni fa, che si stava disintossicando dalla monnezza eurodance e altra roba da discoteca tamarra che imperava tra i suoi coetanei truzzi, e per informarsi aveva solo i canali tematici musicali in televisione e qualche music magazine comprato in edicola. Oggi, tra i “modelli” che “ispirano” gli adolescenti, ci sono Fedez, Emis Killa, Achille Lauro, Sfera Ebbasta (e la lista potrebbe continuare, ma mi sono saliti i conati di vomito e quindi mi fermo). Da questo punto di vista, mi reputo ben felice di non essere un adolescente di oggi. Molta gente dei Nirvana ignora questo merito di aver fatto da “pionieri” nei confronti delle giovani generazioni, educandoli all’ascolto di certo rock ‘n’ roll, e preferisce denigrarli perché nei “circolini” autoreferenziali bisogna parlarne male e snobbarli per partito preso, per acquisire credibilità presso le nicchie di adepti. Se non avessi avuto quella folgorazione per il “grunge” (in una età in cui non si ha coscienza di nulla e si pensa solo alle ragazze e alle stronzate con gli amici) probabilmente oggi sarei stato un buzzurro che ascoltava la trap music o, peggio ancora, il neomelodico meridionale, come diversi miei coetanei o vicini di casa. Grazie rock ‘n’ roll per avermi salvato la vita!

Ok, esaurito il soliloquio time, e sfogato il flusso di coscienza, alla fine della fiera tutto questo papiro è per dire che, grazie ai Nirvana e ai diari di Kurt Cobain, sono arrivato a scoprire e conoscere, a ritroso, tanto R’N’R che li aveva ispirati, e tra le influenze citate ci sono anche i Melvins. Anche loro originari di Aberdeen/Seattle, poi trasferitisi in California, da sempre guidati dall’inossidabile chitarrista e frontman Buzz Osborne, quest’anno sono arrivati all’incredibile traguardo dell’aver registrato il loro studio album numero trenta, con l’uscita di “Thunderball“, pubblicato oggi su Ipecac Recordings.

Il prolifico e multiforme ensemble statunitense fa rivivere, in occasione di questa release – e per la terza volta complessiva, dopo “Tres cabrones” e “Working with God” – la formazione in versione “Melvins 1983”, con la line up che vede il ritorno del batterista originale del combo, Mike Dillard, ad affiancare l’infaticabile “King Buzzo“, con l’aggiunta dei produttori Ni Maîtres e Void Manes. Cinque brani (lo stesso numero di composizioni che aveva caratterizzato anche il precedente full length del combo, “Tarantula Heart“) in cui l’anima preponderante heavy rock/sludge viene insozzata da effettacci elettronici. Se l’inizio è affidato alla veloce e abrasiva “King of Rome” (sorta di dinamitardo post-punk riverberato debitore dei primi Killing Joke) “Vomit of Clarity” è un intermezzo “strumentale” che fa precipitare agli Inferi l’ascoltatore, trafitto dalla lunga marcia Sabbathiana di “Short hair with a wig”, poi ridestato dall’incendiaria partenza psych/punk di “Victory of the Pyramids” che però, a metà brano, rallenta la sua corsa e torna a immergersi in paludi sludge/prog. E, infine, definitivamente stordito dai riffoni doom metal di “Venus blood”, che chiude il disco con otto lugubri minuti che sembrano arrivare direttamente da un Inferno in Terra, geograficamente collocato a Birmingham, nella fabbrica in cui Tony Iommi inventò l’heavy metal dopo quel famoso incidente alle dita della sua mano.

Quel gran genio del nostro amico Osborne una ne pensa e cento ne suona, e anche se l’adolescenza non tornerà più, quando esce un nuovo Lp dei Melvins e lo ascolto, l’effetto amarcord mi trasporta di nuovo ai tempi delle superiori, scoglionato in classe nelle ultime file, con un occhio a far finta di ascoltare e seguire le cazzate dei prof., e con l’altro buttato a sfogliare le riviste musicali sotto il banco, in cerca di recensioni e rubriche sull’alternative rock. Già, anch’io sono proprio diventato un neo-boomer.

Melvins

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