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Good and bad news travel fast

Bob Mould riunisce i Sugar e pubblica nuovo materiale

I rumors ufficiosi (col ricongiungimento avvenuto nel giugno di quest’anno) adesso sono diventati ufficiali: gli statunitensi Sugar sono tornati dopo trent’anni di pausa. Il trio indie/alternative rock, formato ad Austin (Texas) nel 1992 dal frontman e chitarrista Bob Mould dopo lo scioglimento dei seminali Hüsker Dü (quest’anno omaggiati con un notevole confanetto celebrativo) insieme al bassista David Barbe e al batterista Malcolm Travis, aveva pubblicato una manciata di singoli, due Lp (“Copper blue” e “File under: easy listening“) un mini-Lp (“Beaster“) e una raccolta di b-sides e rarità (“Besides“) tra il 1992 e il 1995, riscuotendo un discreto hype mediatico – con frequenti airplay radiofonici e passaggi su MTV dei loro videoclip – prima del temporaneo scioglimento del progetto, con Mould che proseguì nel suo percorso da solista (che quest’anno ha visto la pubblicazione del nuovo album “Here we go crazy“). I nostri si sono ritrovati, questa estate, per registrare nuova musica ai Tiny Telephone studios di Oakland. In attesa di altri annunci in futuro, riguardo a nuovo materiale e date dal vivo (per ora confermati concerti a New York e Londra) per il momento è stato rilasciato un singolo, “House of Dead Memories“, che si rifà palesemente alla formula sonora che fece la fortuna dei Sugar nei Nineties. E’ stato realizzato anche videoclip del brano.

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E’ morto Gary “Mani” Mounfield

Un altro orrendo lutto sconvolge la comunità mondiale del rock ‘n’ roll. E’ di queste ultime ore l’annuncio della scomparsa del bassista inglese Gary Mounfield, noto anche con lo stage name “Mani“. Aveva da poco compiuto 63 anni. La notizia è stata confermata dal fratello del musicista. Per il momento, le cause della sua dipartita non sono state rese note. Nato in un sobborgo di Manchester, il 16 novembre 1962, Mounfield iniziò il suo percorso musicale nel 1987, quando si unì agli Stone Roses, band mancuniana con cui ha raggiunto fama e popolarità a livello globale (insieme al cantante Ian Brown, al chitarrista John Squire e al batterista Alan John “Reni” Wren) pubblicando l’album di debutto ufficiale omonimo nel 1989, che divenne un instant classic nel panorama indie/alternative rock (con anthem come “I wanna be adored“, “Waterfall“, “Made of stone” e “I am the resurrection“) e catapultò gli Stone Roses nella caleidoscopica scena musicale giovanile cittadina, ribattezzata “MADchester” (che, insieme ad altri ensemble come Happy Mondays, Charlatans e Inspiral Carpets, fondeva alternative rock, psichedelia, indie pop, acid house, funk e alternative dance, e aveva nella “Haçienda” di Tony Wilson il suo tempio e fulcro musicale) della quale “Mani” e compagni furono tra gli indiscussi protagonisti, facendosi promotori della “second summer of love” e diventando anche una tra le principali influenze e ispirazioni per diverse band venute dopo di loro, soprattutto alcune che, qualche anno più tardi, caratterizzarono l’arcinota stagione del “britpop” inglese e della “Cool Britannia”. Mounfield, col suo strumento dal design particolare – ispirato allo stile del pittore Jackson Pollock – fungeva da motore ritmico della band, con le sue intense linee di basso ricche di groove. Problemi legali con l’etichetta discografica portarono a svariati ritardi nell’uscita del secondo (e ultimo) studio album del gruppo, “Second coming“, che vide la luce nel 1994 ma non ripetè l’exploit del full length di debutto, trascinando gli Stone Roses a un primo disfacimento nel 1996. “Mani” e sodali si sarebbero poi ricongiunti in un reunion avvenuta nel 2011 e durata fino al 2017, che però, a eccezione di due singoli, non fruttò altri Lp di inediti, prima dello scioglimento definitivo. Dal 1996 al 2011, Mounfield si unì ai Primal Scream di Bobby Gillespie, con cui registrò gli album “Vanishing point“, “XTRMNTR“, “Evil heat“, “Riot city blues” e “Beautiful future“. Prese parte anche al supergruppo Freebass (insieme a Peter Hook e Andy Rourke). Oltre all’attività di musicista, si era dilettato anche come DJ e attore, interpretando il ruolo di se stesso in un cameo come guest, nel 2002, nel comedy drama “24 hour party people“. Qui è possibile leggere una raccolta di tributi, ricordi e commemorazioni che in queste ore sono state pubblicate da amici e colleghi musicisti che hanno conosciuto e stimato Mani.

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E’ morto Nicola Vannini

In un panorama dei necrologi musicali che, da almeno un decennio a questa parte, somiglia sempre più a una valle di lacrime, un altro triste avvenimento, in tal senso, va a funestare anche questo 2025. Nella giornata di ieri, infatti, ci ha lasciati, all’età di 65 anni, Nicola Vannini.

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Hüsker Dü, in arrivo un box set dal vivo

Continua l’opera meritoria della Numero Group, label specializzata in ristampe e restaurazioni tra gli archivi di band fondamentali del post–hardcore americano degli anni Novanta (Karate, Unwound, Codeine e altre) e in generale di altre formazioni indie rock, con l’obiettivo di ridare vita e pubblicare chicche inedite e altre registazioni perdute o dimenticate, o mai pubblicate. Tra le ultime iniziative dell’etichetta di Chicago, in materia di gemme rispolverate e recuperate, c’è l’uscita di un cofanetto dedicato agli Hüsker Dü, leggendario HC punk trio di Minneapolis, che si intitola “1985: The Miracle Year” e la cui pubblicazione è prevista per il 7 novembre. Il box set conterrà quattro Lp, incentrati soprattutto sul recupero del concerto tenuto dagli Huskers (formati dal chitarrista e frontman Bob Mould, dal bassista Greg Norton e dal compianto batterista e vocalist Grant Hart) il 30 gennaio 1985 al First Avenue di Minneapolis, riottenuto da nastri che si credevano perduti in un incendio che, nel 2011, distrusse gran parte dell’archivio del gruppo. Oggi il materiale (al quale sono stati aggiunti un bonus di altre venti tracce registrate nello stesso anno e un libro di 36 pagine che tratta della tournée del 1985 dei nostri, catturati al massimo della loro potenza sonora e all’apice della loro parabola artistica, dopo aver incendiato le scene con dischi come “Land speed record“, “Everything falls apart“, “Metal circus“, il colosso “Zen Arcade“, “New Day Rising“, e quasi in procinto di pubblicare l’album “Flip your wig“) è stato rimasterizzato da Beau Sorenson agli Electrical Audio studios di Chicago. Di seguito, artwork e tracklist completa. 1. New Day Rising (1-30-85 at First Ave) 2. It’s Not Funny Anymore (1-30-85 at First Ave) 3. Everything Falls Apart (1-30-85 at First Ave) 4. The Girl Who Lives On Heaven Hill (1-30-85 at First Ave) 5. I Apologize (1-30-85 at First Ave) 6. If I Told You (1-30-85 at First Ave) 7. Folklore (1-30-85 at First Ave) 8. Every Everything (1-30-85 at First Ave) 9. Makes No Sense At All (1-30-85 at First Ave) 10. Terms Of Psychic Warfare (1-30-85 at First Ave) 11. Powerline (1-30-85 at First Ave) 12. Books About UFOs (1-30-85 at First Ave) 13. Broken Home, Broken Heart (1-30-85 at First Ave) 14. Diane (1-30-85 at First Ave) 15. Hate Paper Doll (1-30-85 at First Ave) 16. Green Eyes (1-30-85 at First Ave) 17. Divide And Conquer (1-30-85 at First Ave) 18. Pink Turns To Blue (1-30-85 at First Ave) 19. Eight Miles High (1-30-85 at First Ave) 20. Out On A Limb (1-30-85 at First Ave) 21. Helter Skelter (1-30-85 at First Ave) 22. Ticket To Ride (1-30-85 at First Ave) 23. Love Is All Around (1-30-85 at First Ave) 24. Don’t Want To Know If You’re Lonely (11-3 SLC) 25. I Don’t Know For Sure (11-3 SLC) 26. Hardly Getting Over It (11-3 SLC) 27. Sorry Somehow (11-3 SLC) 28. Eiffel Tower High (11-3 SLC) 29. What’s Going On (11-4 Boulder) 30. Private Plane (11-4 Boulder) 31. Celebrated Summer (11-4 Boulder) 32. All Work And No Play (10-31 Long Beach) 33. Keep Hanging On (5-17 Newport, KY) 34. Find Me (5-17 Newport, KY) 35. Flexible Flyer (5-12 Washington DC) 36. Sunshine Superman (5-9 Hoboken) 37. In A Free Land (5-9 Hoboken) 38. Somewhere (5-15 Cleveland) 39. Flip Your Wig (9-17 Frankfurt) 40. Never Talking To You Again (9-19 Lausanne) 41. Chartered Trips (9-19 Lausanne) 42. The Wit And The Wisdom (9-17 Frankfurt) 43. Misty Modern Days (10-26 Seattle)

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E’ morto Jim Kimball

Un’altra orrenda notizia arriva a funestare il 2025 in termini di dipartite nel mondo del rock ‘n’ roll. Il 27 agosto, infatti, ci ha lasciati anche Jim Kimball, batterista americano molto apprezzato nella comunità underground indipendente R’N’R statunitense e non solo. Aveva 59 anni e la cause della sua morte non sono state rese note, ma la notizia è stata confermata sui social network. Cresciuto con una impostazione classica jazz, tra Michigan e, in seguito, Chicago (Illinois), fu tuttavia testimone di un periodo di profonda trasformazione, alla fine dei Seventies/inizio Eighties, nel mondo del rock, sconquassato dal terremoto sonico-estetico-etico del punk rock (e poi dal post-punk, dall’avvento dell’hardcore punk e derivati) James “Jim” Kimball si è contraddistinto per il suo drumming potente, energico, preciso e intenso, con cui si fece notare soprattutto nella sua avventura coi Laughing Hyenas, esplosiva formazione garage/noise/punk/blues rinomata, dal vivo, per la rumorosa aggressività dei loro concerti selvaggi, e registrando con loro gli album “Merry go round“, “You can’t pray a lie” e “Life of crime” (giocando un ruolo importante nello sviluppo della scena post-hardcore e noise rock, nonché nella espansione e divulgazione del movimento indie rock americano, pur non raggiungendo mai la stessa popolarità di altre band contemporanee più famose) prima di lasciare il gruppo nel 1991 per fondare i Mule insieme all’ex compagno di band Kevin Munro/Strickland: una militanza – incentrata su sonorità blues/alt.rock con venature southern/country, durata tre anni, che fruttò alcuni 7″ e un Lp omonimo, per poi chiamarsi fuori anche da questa esperienza. Kimball, successivamente, unì le forze col chitarrista dei Jesus Lizard, Duane Denison (e Ken Vandermark) per dare vita al brillante progetto free jazz/avantgarde/math rock Denison/Kimball Trio, che incise tre full length tra il 1994 e il 1998, anno in cuì suonò anche nell’album dei Jesus Lizard, “Blue” (l’ultimo prima di una pausa durata, per l’ensemble di Denison e David Yow, ben ventisei anni, interrotta, soltanto l’anno scorso, dal full length “Rack“) e sedendo dietro le pelli anche nell’Ep omonimo. Nel 1996 contribuì al disco “Boil” dell’one-man band australiano J.G. Thirlwell aka Foetus. Fornì le sue prestazioni anche su due dischi del collettivo indie/alternative rock Firewater. L’ultima sua concreta apparizione risaliva al 2023 insieme ai Ghostforest.

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Roberto Calabrò, ristampato il libro “Eighties colours”

Importante operazione di recupero effettuata dalla casa editrice umbro-emiliana Odoya che, quest’anno, ha ristampato “Eighties colours: garage beat e psichedelia nell’Italia degli anni Ottanta“, libro scritto dal giornalista e scrittore Roberto Calabrò (che vanta collaborazioni con magazines musicali come Blow up, Shindig!, Gimme Danger e Ruta 66, tra gli altri) che documenta la scena Neosixties italiana e tutte le band nostrane che, a metà Eighties, scelsero di abbracciare la sgargiante ondata di revival del garage rock degli anni Sessanta iniziata negli Stati Uniti agli inizi di quel decennio, per poi espandersi a macchia d’olio anche in Europa. Originariamente pubblicato, nel 2010, da Coniglio editore, in sole milleduecento copie, da tempo andate esaurite (e contraddistinto da una suggestiva e curata veste grafica a colori) e che all’epoca ottenne un ottimo riscontro di pubblico, nelle varie presentazioni-happening in giro per lo Stivale, oggi il libro – in versione riveduta e corretta – è stato ampliato a 416 pagine, arricchito da una nuova introduzione e una nuova sezione dedicata ai “colori degli anni Ottanta nel Ventunesimo secolo“, con interviste ai protagonisti di quella stagione giunta fino ai giorni nostri (musicisti, produttori discografici, giornalisti, promoter, fotografi e fan che hanno vissuto quel periodo in prima persona) le discografie e tutte le vicissitudini delle varie formazioni, aggiornate al nuovo millennio. Il tutto in occasione dei quaranta anni dalla realizzazione della compilation “Eighties colours“, sempre incentrata sul dare spazio ai gruppi del Sixties garage revival, e curata dalla Electric Eye records di Claudio Sorge, il cui titolo ha dato spunto e ispirazione all’omonima opera di Calabrò. Il dettagliatissimo volume – frutto di un minuzioso lavoro di archivio, durato anni, messo in atto dall’autore, con l’intenzione di rendere grazie a un mondo che gli ha cambiato la vita, ma anche rendere giustizia a sottoculture, in passato, snobbate dalla storiografia e saggistica rock ufficiale italiana – tratta di una (relativamente) piccola, ma significativa ondata giovanile che, a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, nauseata, da un lato, dalla musica pop commerciale e della patina plasticosa e sintetica propinata dal mainstream televisivo/radiofonico – folgorato dall’esplosione del consumismo di massa e l’ascesa del rampante capitalismo yuppie della “Milano da bere”, propagandati dall’establishment come modelli di società “vincente”, in cui prosperò il berlusconismo – e, dall’altro lato, che non si riconosceva nemmeno nella new wave e l’algido filone “dark” del post-punk inglese che aveva fatto breccia in Italia. Quei ragazzi trovarono rifugio nella riscoperta della musica, dell’estetica (camicie paisley, Chelsea boots e capelli a caschetto) e dell’immaginario di certi Sixties, quelli del garage rock, del beat e della psichedelia, muovendosi lontano dalla facciata scintillante dei circuiti musicali ufficiali, e spinti dal celebrare la gioia di vivere, ritornando alle radici più pure del rock ‘n’ roll, generarono, soprattutto nel fulgido quinquennio 1985-1990, un’esplosione di colori e vivacità nell’underground della penisola, dando vita a band (ed esperienze che, in certi casi, continuano ancora oggi) tra cui vanno sicuramente ricordate e menzionate Not Moving, Sick Rose, gli Avvoltoi, i Barbieri, Effervescent Elephants, i Birdmen of Alkatraz, Steeplejack, No Strange, Technicolour Dream, Four By Art, Allison Run e altri, facendo convivere l’urgenza espressiva del garage rock, la lezione del punk rock, la vitalità del beat e il fascino multicolore della psichedelia, dando forma a una energica scena sotterranea indipendente vissuta con entusiasmo e senso di comunità, caratterizzata da decine di dischi, cassette, fanzines, concerti e tour.

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E’ morto Ozzy Osbourne

Anche questo 2025, purtroppo, si conferma come un anno che lascia il segno in termini di dipartite eccellenti, se non proprio epocali. Nella giornata di ieri, infatti, ci ha lasciati anche Ozzy Osbourne. L’arcinoto frontman inglese aveva 76 anni e, da tempo, era afflitto dal morbo di Parkinson. E’ stata la stessa famiglia Osbourne a diffondere la notizia tramite un comunicato. Nato come John Michael Osbourne il 3 dicembre 1948 nei dintorni di Birmingham, in Inghilterra, e cresciuto nella realtà industriale cittadina, riuscì a sfuggire a una logorante vita da operaio in fabbrica grazie alla sua passione per la musica, che gli fece incontrare il bassista “Geezer” Butler, il chitarrista Tony Iommi e il batterista Bill Ward, coi quali iniziò a suonare alla fine dei Sixties, fondando una band con influenze jazz/blues inizialmente chiamata Earth, alla quale fu poi cambiato il moniker in Black Sabbath, un gruppo che, dal 1970 in avanti, per innovazioni e importanza musicale, ha cambiato il corso della storia di una enorme fetta del rock ‘n’ roll dei decenni successivi, forgiando un suono pesante e oscuro (necessità scaturita da un incidente alle dita capitato in fabbrica al chitarrista Iommi che, per superare il dolore dovuto al dover suonare con la mano destra parzialmente menomata, si fece costruire ditali e protesi che lo aiutassero a maneggiare la chitarra con meno fatica, ribassandone l’accordatura, rendendo ancora possibile fare il sogno di essere musicista, prendendo esempio dal jazzista Django Reinhardt che sviluppò una tecnica chitarristica rivoluzionaria nonostante una mano con due dita atrofizzate) dai toni lugubri e cupi, ispirato da temi letterari e cinematografici esoterici e “horrorifici” (il nome del gruppo prese spunto dalla passione di Geezer Butler per la letteratura gotica e l’occulto, e dal titolo di un film di Mario Bava) e apocalittici, caratterizzato da una sezione ritmica poderosa e guitar riffs massicci, distorti e potenti. Dischi dal valore storico-musicale inestimabile come l’omonimo “Black Sabbath” (1970), “Paranoid” (1970), “Master of Reality” (1971), “Vol.4” (1972) “Sabbath bloody sabbath” (1973) e “Sabotage” (1975), con Osbourne alla voce e nel ruolo di frontman catalizzatore – dotato di innata presenza scenica e straordinaria capacità di tenere il palco – ufficializzarono la nascita dell’hard ‘n’ heavy rock, segnando un’epoca con un immaginario dark che ha fatto scuola e ha fatto guadagnare sul campo, ai quattro di Birmingham, il meritato riconoscimento universale dell’essere considerati tra i principali “padri fondatori” dell’heavy metal, nonché “padri putativi” di movimenti e sottogeneri esplosi nei decenni successivi ai Seventies, come un larghissimo segmento del macrocosmo metal (in particolare il filone dell’heavy classico, del thrash, del gothic e doom metal) la scena “grunge” di Seattle, il movimento heavy/psych rock (detto anche “stoner”) di fine Eighties/inizio Nineties e parte del calderone crossover/”nu metal” di fine millennio, di fatto inventando il metal come immaginario popolare e influenzando migliaia di band. Ozzy e i Sabbath, nella loro formazione “storica”, sono stati prima osteggiati da radio e stampa musicale, e poi, successivamente, rivalutati e osannati dai media; avevano conosciuto momenti di crisi, scioglimenti, litigi, riappacificazioni, pause e reunion, di cui l’ultima della line up originaria quest’anno, culminata in “Back to the beginning“, tenutosi il 5 luglio allo stadio “Villa Park” di Birmingham, evento – celebrato con la partecipazione di ensemble metal e alternative che hanno salutato il “Madman“, a testimonianza dell’influenza avuta dai quattro sul mondo del rock tutto – che aveva sancito l’addio ufficiale alle scene di Ozzy Osbourne (nel quale aveva cantato, per un’ultima volta in pubblico, seduto al centro del palco su un trono perché gravemente debilitato dalla malattia, che gli aveva anche fatto cancellare il suo ultimo tour solista) e conseguente fine del percorso dei Sabbath (che era iniziato nel lontano 1968) il cui incasso è stato devoluto in beneficenza. Personaggio eccentrico, incarnazione del “loser” di provincia che insegue un sogno e riesce a realizzarlo, diventando una fonte di ispirazione per tanta gente; artista che, mediaticamente, bucava lo schermo, noto per i suoi proverbiali eccessi e comportamenti sopra le righe (è stato anche protagonista di un reality show incentrato sulle vicende della sua famiglia) Osbourne dal 1980 in avanti ha avuto una parabola solista altrettanto importante e di discreto livello, non dovendo più condividere la luce dei riflettori con gli altri tre colleghi nei Sabs e prendendosi tutta la scena come attore principale, raggiungendo una fama mondiale solida e imperitura, con milioni di album venduti e alimentando il mito del “principe delle tenebre” con aneddoti ormai entrati nella memoria collettiva degli appassionati di musica (e non solo), ma circondandosi anche di turnisti validi e musicisti talentuosi, ritagliandosi un ruolo da scopritore di talenti, avendo avuto il merito di lanciare alla ribalta chitarristi metal oggi celebrati come leggendari (Randy Rhoads e Zakk Wylde) e pubblicando almeno due pietre miliari come “Blizzard of Ozz” (1980) e “Diary of a madman” (1981). Nel 1996 ideò il festival itinerante “Ozzfest“, che durò fino al 2018. Si cimentò anche nel cinema, interpretando alcuni ruoli in diversi film. La sua vita è stata anche oggetto di un documentario.

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E’ morto David Thomas

Anche in questo 2025, purtroppo, non accennano a fermarsi le notizie da dare riguardo a dipartite di personaggi e musicisti stimati e amati della scena rock ‘n’ roll mondiale. Il 23 aprile infatti, dopo una lunga malattia, ci ha lasciati anche David Thomas, frontman, songwriter e musicista statunitense. Aveva 71 anni e la sua scomparsa – sopraggiunta in Inghilterra, a Brighton & Hove – è stata confermata dalla famiglia e diffusa sui canali ufficiali della sua band con un messaggio sui social network. Nato a Miami, in Florida, negli States il 14 giugno 1953, David Lynn Thomas (questo era il suo nome completo) nel 1974 fu tra i membri fondatori dei Rocket from the Tombs, seminale band proto-punk di Cleveland (Ohio) in cui il nostro scrisse, insieme al chitarrista Cheetah Chrome, il singolo “Sonic reducer” (brano che, in seguito, sarebbe divenuto un anthem punk rock inciso dai Dead Boys in cui militavano proprio Chrome e Johnny Blitz, altro ex RFTT) in una formazione che, nei Seventies, non riuscì a registrare nessun album, ma vedeva, alle chitarre, anche Peter Laughner che, dopo lo scioglimento dei RFTT nel 1975, si riunirà a Thomas per formare i Pere Ubu. David Thomas, provocatore e agitatore culturale, guidò i Pere Ubu (rimanendone l’unico membro stabile) con spirito avanguardistico, irriverente e iconoclasta, poco incline a compromessi col mainstream discografico, e facendo del gruppo un punto di riferimento fondamentale (col suo “avant-garage“) del post-punk più intransigente, muovendosi nel sottobosco art-rock/punk, pubblicando singoli epocali (tra cui vanno menzionati “30 seconds over Tokyo“, e “Final solution“, divenuti classici del combo) e almeno due capolavori come l’Lp di debutto “The modern dance” e “Dub housing“, entrambi usciti nel 1978, innervati dalla carica sovversiva dell’onda lunga della rivoluzione punk rock che lo stesso Thomas (autore anticonformista, che destrutturava la forma-canzone e sperimentava con l’inglobare elementi teatrali, musica concreta, spoken word, elettronica, free jazz, Krautrock e pop nel sound dell’ensemble) aveva fomentato nella sua precedente incarnazione coi Rocket from the Tombs. Tra scioglimenti e reunion, i Pere Ubu avevano tagliato il traguardo dei cinquanta anni di percorso musicale proprio quest’anno, completando la realizzazione di un nuovo, ultimo album insieme al suo faro artistico. Thomas aveva ultimato anche la sua autobiografia, che uscirà postuma. Parallelamente ai Pere Ubu, Thomas aveva sviluppato altri progetti e collaborazioni in una dimensione solista (Pedestrians, The wooden birds, The foreigners, Two pale boys ) e nel 2003 prese parte alla reunion dei Rocket from the tombs, che fruttò tre dischi in studio, “Rocket redux“, “Barfly” e “Black record“.   The Day the Earth Met The Rocket From the Tombs by Rocket from the Tombs

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Area Pirata, ecco la seconda edizione del festival

Si svolgerà sabato 24 maggio, presso l’associazione culturale Arci “GOB – Ganz Of Bicchio” alle porte di Viareggio, la seconda edizione del festival organizzato da Area Pirata Records, label toscana attiva dal 2001 e, col tempo, divenuta un punto di riferimento per le varie scene dell’underground R’N’R che operano fuori dai mercati del mainstream discografico, e fa dell’indipendenza il suo credo esistenziale, fondando la sua essenza sull’etica DIY, muovendosi prevalentemente in territori garage rock, punk rock, hardcore punk, mod/beat, surf, glam, rockabilly/psychobilly, neopsichedelici ed OI!, agendo sul doppio fronte della pubblicazione di release inedite delle band del proprio roster attuale, e quello delle ristampe di materiale da tempo irreperibile di gruppi del passato affini allo spirito dell’etichetta. Il cronoprogramma del festival prevede l’inizio della serata alle 20,30 e l’apertura dei concerti alle 21,30 con le garage punkers abruzzesi Wide Hips 69, dopo le quali si avvicenderanno sul palco la one girl band veneta Elli De Mon, lo psych/garage/beat dei Backdoor Society e gli americani Monkey Cat, al loro primo tour europeo. Il tutto sarà corredato dalla presenza di diversi stand musicali. Qui il link all’acquisto in prevendita.

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E’ morto Brian James

Non accenna a diminuire il numero di musicisti conosciuti e amati della scena rock ‘n’ roll mondiale che ci stanno lasciando in questi ultimi tempi. Solo pochi giorni fa avevamo dato conto della scomparsa di David Johansen. Nella giornata di ieri, è stata diffusa la notizia – tramite i suoi profili sui social network – di un’altra illustre dipartita, quella di Brian James, chitarrista e songwriter inglese universalmente noto per essere stato uno dei membri fondatori della punk/goth/dark band londinese dei Damned. Aveva da poco compiuto 70 anni. Nato a Hammersmith (Londra) il 18 febbraio 1955 come Brian Robertson, iniziò la sua avventura musicale prendendo parte a gruppi proto-punk come i Bastards, i Subterraneans e i London SS (dove transitarono anche altri personaggi che, in seguito, sarebbero stati tra i protagonisti della prima ondata del punk inglese, come Mick Jones e Tony James) per poi unirsi, nel 1976, al frontman Dave Vanian, al bassista/chitarrista Captain Sensible e al batterista Rat Scabies per dare vita ai Damned, una delle primissime formazioni punk rock di tutto il Regno Unito (che insieme ai Sex Pistols e ai Clash viene sempre menzionata tra i “big three” londinesi che hanno dato il via all’intero movimento, ispirando poi migliaia di band in Europa e nel resto del mondo) e il primo combo in assoluto del punk britannico a registrare un brano, nell’ottobre 1976 (a distanza di appena qualche settimana dal primo singolo dei Ramones negli Stati Uniti) il pionieristico e folgorante singolo “New Rose“, precursore di uno stile capace di influenzare, con le sue idee e il suo atteggiamento, tutte le generazioni di kids venuti dopo quel terremoto multimediale, concettuale ed estetico del 1976-77 che mise a soqquadro il mondo della musica, della moda e dell’avanguardia artistica. James prese parte alle incisioni dei primi due album dei Damned, il seminale debutto “Damned Damned Damned” (unaninamente considerato pietra miliare del punk rock tutto) e “Music for pleasure“, entrambi usciti nel 1977, abbandonando poi il gruppo. Nel 1978 formò i Tanz Der Youth, band che ebbe vita breve, registrando un solo singolo. Dopo aver suonato con Iggy Pop in tour nel 1979, iniziò a registrare il primo materiale solista con l’ausilio del batterista Stewart Copeland. Nel 1981, in piena ondata post-punk, insieme a Stiv Bators (fondatore ed ex frontman dei Dead Boys) fondò i Lords Of The New Church, il suo progetto di gruppo più duraturo e produttivo, dedito, nell’arco di (quasi) un decennio, a un sound che oscillava tra il punk delle origini e un dark rock ante-litteram, pubblicando gli Lp “Is nothing sacred?“, l’omonimo, “The method to our madness” e l’autoprodotto “Hang on” (dopo la reunion del 2001, senza Bators, venuto a mancare nel 1990). Dopo altre collaborazioni (come quella con gli australiani Saints sul disco “Out in the jungle“) e una breve reunion coi Damned, James riuscì a ultimare, nel 1990, il suo primo disco solista (omonimo) e lungo gli anni Novanta si era unito ai Dripping Lips per registrare una colonna sonora per un film e un long playing. Nel 2000 fece parte del supergruppo dei Racketeers (aka Mad for the racket), con cui registrò un full length insieme a Wayne Kramer, Duff McKagan, Stewart Copeland e Clem Burke. Dopo la reunion dei LOTNC, Brian tornò a far uscire un 33 giri solista col moniker The Brian James Gang, più altri tre lavori in proprio. Alla fine del 2022 si era riunito con Vanian, Scabies e Sensible per una reunion tour dei Damned (alla quale presero parte anche le italiane Smalltown Tigers come opening act).

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E’ morto David Johansen

Anche in questo 2025, da poco iniziato, sembra non arrestarsi, purtroppo, la spirale di decessi di musicisti amati della scena rock ‘n’ roll mondiale. Nella giornata del 28 febbraio, infatti, ci ha lasciati, a 75 anni, anche David Johansen, musicista noto soprattutto per essere stato il frontman degli statunitensi New York Dolls – dei quali era rimasto l’unico superstite -. La notizia è stata diffusa dalla famiglia. Da anni era malato di cancro e allettato, per finanziare le cure per la sua salute era stata lanciata anche una campagna di raccolta fondi dallo Sweet Relief Musicians Fund. Nato a Staten Island, New York il 9 gennaio 1950, David Roger Johansen (questo il suo nome completo) di origini europee norvegesi-irlandesi, crebbe con la passione per la musica, ascoltando rhythm and blues, doo-wop e la prima ondata rock ‘n’ roll. Dotato di eccellente presenza scenica sul palco, nel 1971 entrò a far parte dei New York Dolls, una band etichettata storicamente – insieme a Stooges, MC5 e Velvet Undeground – come “proto-punk” (con la sua proposta sonora di un rock ‘n’ roll grezzo, sporco e tecnicamente sgraziato) e ispiratrice, nei decenni successivi, di una miriade di gruppi e un’influenza fondamentale per buona parte degli ensemble della prima scena punk rock americana e inglese, hard rock e parte dell’heavy metal (soprattutto la branca del “glam” e “hair”, per via dell’uso del trucco e dei travestimenti femminili messi in scena dai nostri a mo’ di look provocatorio e rivoluzionario). Insieme ai chitarristi Johnny Thunders e Sylvain Sylvain, al bassista Arthur Kane e al batterista Billy Murcia (poi sostituito da Jerry Nolan) Johansen divenne il frontman del combo e coi New York Dolls faceva parte della scena del Mercer Center Arts e del Kitchen, uno spazio culturale adibito a sala prove e luogo di concerti e performance teatrali, posto all’interno di un fatiscente hotel newyorchese, nel quale il quintetto si esibiva in concerti infuocati finché la struttura non crollò, fisicamente, nel 1973. Con la loro miscela di blues energizzato e androginia enfatizzata da un glam rock anfetaminizzato, nichilismo e autodistruzione come attitudine e live set selvaggi e rumorosi, i NYD dei primi Seventies potevano essere considerati una versione statunitense più ruspante e garage rock dei Rolling Stones, arrivando a incidere due album, un omonimo nel 1973 e “Too much too soon” nel 1974, che all’epoca non ottennero grandi riscontri di vendite – ma che nei decenni seguenti all’uscita sarebbero stati riconosciuti come dischi seminali per lo sviluppo della storia di certo rock ‘n’ roll, con pezzi come “Looking for a kiss“, “Personality crisis“, “Jet boy“, “Bad girl“, “Vietnamese baby“, “Frankenstein“, “Stranded in the jungle“, “Human being” e “Who are the mystery girls?” assurti a veri e propri classici – il cui flop commerciale, unito al logoramento dei rapporti personali e all’abuso di droghe, portarono la band (di cui fu manager, nell’ultimo periodo, anche il “guru” inglese Malcolm McLaren pre-Sex Pistols) allo scioglimento alla fine del 1976. Diversi decenni dopo, i New York Dolls rimanenti (nel frattempo erano scomparsi Thunders e Nolan) si sarebbero poi riuniti nel nuovo millennio, nel 2004 (anno della dipartita di Kane) sotto la spinta dell’ex frontman degli Smiths, Morrissey (fan accanito dei newyorchesi) che fece concretizzare una reunion con Johansen, Sylvain e nuovi musicisti, con cui i Dolls pubblicarono gli Lp “One Day It Will Please Us to Remember Even This” nel 2006, “Cause I sez so” (2009) e “Dancing Backward in High Heels” (2011) prima della scomparsa, avvenuta nel 2021, anche di Sylvain Sylvain. Johansen intraprese anche un percorso solista (più ricercato e sofisticato rispetto ai Dolls, a livello sonico) che, a cavallo tra fine Seventies e metà Eighties, fruttò quattro full length e due live album. Alla fine degli anni Ottanta, si reinventò come cantante jazz/swing/lounge, utilizzando lo pseudonimo Buster Poindexter, realizzando altri quattro long playing e prendendo anche parte alla house band del noto programma televisivo “Saturday Night Live”. Nei primi anni Duemila, prima della reunion dei New York Dolls, tornò al suo amore per il country-blues, pubblicando due album come David Johansen and the Harry Smiths. Analogamente alla sua avventura musicale, Johansen è stato anche un conduttore radiofonico e un attore. Nel 2023 fu il soggetto di un documentario diretto da Martin Scorsese e David Tedeschi intitolato “Personality Crisis: One Night Only“.

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