Arrivato a questo punto mi son chiesto “perché faccio tutto questo?
Perché ascolto, medito, scrivo e pubblico? Perché?”
Perché in fondo, mi son risposto, questo è quanto di meglio la vita mi abbia offerto; indagare nei più remoti antri dell’autoproduzione, ricercare in questi tracce di una filosofia, stracci di poesia, tranci interi di anarchia è quello che mi dà motivazione e mi spinge ad andare avanti nonostante i continui NO della vita comune oramai eretta allo status, e regimentata secondo i canoni, di una non precisata normalità: una normalità che, spogliata delle sue consuetudini, luoghi comuni e rituali, appare sempre più per quello che è: ricerca paranoica dell’ordine dall’alto, disciplina imposta, sicurezza come emergenza che a sua volta diventa una scusa per non crescere e non prendere decisioni per proprio conto, delegare ad altri ogni possibile responsabilità su se stessi a costo di perdere libertà, libero arbitrio o più semplice buon senso.
Cerco nei meandri più reconditi la via di fuga dalla normalità, cerco persone non allineate, cerco pensieri fuori dalla scatola e, per fortuna, ogni mese ne trovo sempre di nuovi.
3D and the Holograms “3D and the Holograms”, 2023-Roachlegs Records
È un po’ di tutto triturato in sottovuoto, in assenza di aria, polmoni che implodono e elementi chimici che si mescolano in assenza di ossigeno.
Triturano atomi di generi e sottogeneri e generano Hardcore privo di quell’approccio molto maschio che, di solito, non mi fa apprezzare l’Hardcore. Ma è davvero Hardcore? Non lo so e nemmeno mi pongo il problema; l’unico problema è il mio non riuscire a calarmi nei panni di quelli che continuano, nonostante il mondo vada a rotoli, a ricercare nella musica la normalità e si rifiutano di accettare, dischi così, come musica: l’arte ci parla dei nostri giorni e se non lo fa vuol dire che arte in realtà non è.
La musica dei 3D and the Holograms parla al presente ed è arte fatta e finita, arte con delle radici, arte con uno scopo: descrivere un’era confusa dove tutto è, oramai è chiaro, come dire niente.
E loro mescolano linguaggi, suoni, modi di dire, di vivere, baciare, lettera o testamento (testamento!) con la stessa delicatezza di un gruppo di bambini che gioca con una bomba atomica. Passano da violenti attacchi alla ghiandola epiteliale a simpatici jingle pubblicitari suonati distorti con una semplicità che lascia quasi stupefatti. Non cercate un senso, per fortuna qui non ne troverete.
Dell’Anima Nella Serpe “Tre Salti delle streghe”,2023
Un rave party che si tramuta in un sabba che invoca l’apocalisse; il governo interviene, forte delle sue leggi inapplicabili, e, nonostante un’incursione sbirresca piuttosto scenografica e decisamente instagrammabile, ci si rende conto (o meglio ci si arrende all’evidenza) che l’apocalisse è già qui: “meno animali di macchinari assassini/stagisti di vite buttate/servi del malessere retribuito/tu servi al malessere” poche parole, buttate lì come pensieri immediati, pensati e subito risputati fuori per fare da innesco ad un incendio di idee e boicottaggi della macchina industriale: anziché farsi fagocitare dal Moloch capitalista, i Dell’Anima Nella Serpe ne utilizzano i tratti meccanici, robotici e ne tirano fuori un commento musicale ossessivo e e violento: Tecno, Industrial, cori di streghe e benpassanti impazzitə.
Rimangono sospesə tra un frasario anarchico e l’orrore popolare, ne condensano le caratteristiche e ne fanno un messaggio unico volto a ferire la corteccia del potere costituito. Fanno pensare ai Contropotere, per scelte, estetica, rimandi al paganesimo contrapposto alla società dei consumi, ma, a dire il vero, c’è molto di più: la scelta di una strumentazione basica, una formazione risicata, un’indole che li spinge a rifiutare riferimenti stilistici colti, lə rende unichə ed irripetibilə.
Un ascolto obbligato per capire dove sta andando, dopo tre anni di pandemia ed un futuro fatto di guerre per le risorse energetiche, il Punk Rock in Italia e nel mondo: una spinta artistica di natura individuale, messa in scena con pochi mezzi ma con un immaginario ed una motivazione che, forse, neanche la prima scuola Hardcore anni ’80 poteva vantare.
Dyatlov “Dyatlov”, 2023-Spazz Records
A me definire i Dyatlov riesce difficile. Non è che siccome c’è un synth allora “Si, è facile, trattasi senz’altro di Synth Punk “ troppo facile, troppo sbrigativo e, tanto per dire, troppo disonesto; non me la sento di togliere ad un gruppo così folle, di una follia così ragionata, la dignità dell’opera unica, irripetibile, imputabile solo all’intelletto dei musicisti in questione.
Indubbiamente l’ombra dei Lost Sounds più paranoici si affaccia e tiene le fila perché, bene ricordarlo, da qualche parte bisognerà pure cominciare, ma quella angoscia, quella disperazione che da questi solchi trasudano e strabordano non può essere che frutto della lente di ingrandimento che i Dyatlov hanno puntato sulle loro stesse vite. Un basso molto centrale, dialoghi tra chitarra e synth in eterno sospensione tra il Noise Rock, il Punk Rock e 20 notti insonni consecutive, dove è il rancore a tenerti sveglio.
Nella loro volontà di destrutturazione il gruppo sa rimanere compatto e nel fare a pezzi ogni partitura possibile si dimostra munito di progettualità e capacità di visione: elementi che parrebbero voler cozzare fra loro ma, nella frizione necessaria, disegnano possibilità e varianti infinite. Mi auguro davvero che queste mie parole, usate per descrivere un gruppo così creativo, non venissero fraintese con un entusiasmo posticcio ed immotivato; seguite questo gruppo, ascoltatelo con attenzione: gli ascolti distratti son da consumatori e i Dyatlov non vanno consumati ma capiti.
Gravitsapa “Concert no.1 for Chamber Duo with Looper and Polivox”, 2023
La reazione più forte, decisa, ferma contro l’abominio di una guerra, è l’arte o, meglio ancora, lo è il tradurre la manifestazione più brutta, oscena e cacofonica dell’essere umano in arte…perché questa è arte con la A maiuscola. La paura e l’angoscia di un popolo invaso tradotte in suoni cupi, devastati, lamenti gutturali e fraseggi di chitarra che, più che fraseggi, sembran corde suonate dal vento generato da un’esplosione.
Visioni di edifici distrutti, macerie, pianto, corpi senza vita, incubi che si rincorrono su autostrade musicali bombardate. I governi decidono (male) i musicisti rappresentano impietosi i loro errori.
Provengono da zone di guerra e, della guerra, si fanno narratori impietosi senza utilizzare parole, solo musica: una sperimentazione intrisa di suoni cupi e dove non si riesce mai ad intravedere la luce in fondo al tunnel: l’orrore restituito senza giudizi, morali, punti di vista; fredda cronaca dove le foto di cadaveri orribilmente mutilati vengono esibite senza didascalie: una mostra d’atrocità per stimolare riflessioni in chi ascolta e creare immagini sulla tela della sua immaginazione. Certamente non è un disco da ascoltare tutti i giorni tanta è la propensione, in ogni sua nota storta e in ogni sua suggestione, verso tutto quello che è inaccettabile ma parimenti non lo è neanche lo stato d’assedio atto ad umiliare un popolo.
Questo disco è così perché non può essere altro allo stato attuale degli eventi.
Heavy Mother “Comical Uncertainty”, 2023-Feel It Records
Eppure bisognerà rassegnarsi al semplice fatto che suonare non è uno scherzo: suonare è andare in mille pezzi per comporre un pezzo unico. Si prenda ad esempio quell’approccio musicale autolesionista dei Velvet Underground periodo John Cale o lo si misceli in attente dosi col Rock più marcio di Stooges, MC5 e si chiuda il tutto farcendolo con arrangiamenti scarni, atmosfere polverose, chitarre zozze ma senza eccedere mai con la saturazione.
Otterrete gli Heavy Mother, un gruppo che pare voler aggiungere parole a capitoli già scritti ma che, col vitale apporto di quell’elemento fondante di ogni spirito umano che è l’individualità, aggiunge nuovi capitoli senza inficiare la felicità del racconto. Un disco quindi di Rock n’Roll, di quello bello, senza compromessi, senza intromissioni improvvise che, in un tessuto così, donerebbero sicuramente l’effetto sorpresa ma che, proprio perché su questo tessuto, lascerebbero solo il tempo che trovano.
L’importante è lasciarsi trasportare, convincersi che l’importante è la vitalità e la spontaneità e che l’artificio, il gioco di prestigio, è solo un metodo di procedimento forzato per distinguersi e risultare solo pomposi e privi di costrutto. Quel che c’è di bello in dischi così è che è vero, spontaneo, quasi buttato lì come un saluto, un’offesa o schiaffo.
L’istante che diventa arte e, inconsapevolmente, riassume un intero periodo dell’esistenza facendosene portavoce più che credibile.
Itchy & the Nits “Itchy & The Nits”, 2023-Warttmann Inc.
La musica resta una cosa meravigliosa. Il Punk Rock, poi, è una delle sue espressioni più entusiasmanti ancora: con una batteria, un basso e una chitarra, le Itchy & The Nits riescono nel compito di tirar fuori 9 pezzi che, senza darsene troppa cura, spaziano nel Power Pop, nell’Indie Rock e nelle delizie di una vita che, se uno ci riflettesse più attentamente, senza lasciarsi prendere la mano da orari, appuntamenti e turni di lavoro, sarebbe pure semplice da vivere.
Le Itchy & The Nits non solo propongono nove pezzi che si stampano in testa appena attaccano e che generano un senso di immediata fidelizzazione alla loro causa, ma danno anche un metro di misura da utilizzare ogni giorno a fronte di doveri ed impegni socialmente accettabili: non importa essere accettabili, non è necessario essere ben accolti nella schiera dei servi, importa solo 1-2-3-4, chitarra in battere, voce Pop e pedalare. Il resto è deleterio e profondamente antiumano.
–Goodbye Boozy, un modo come un altro di esistere?-
Non nascondo che spesso penso a quanto quest’etichetta enorme, per quanto piccola, per quanto grandiosa, per quanto modesta, mi somigli più della mia immagine riflessa nello specchio. Ad ogni uscita riconosco come una sorta di racconto tra le righe, un qualcosa che è oltre la musica, oltre il bene ed oltre il male; quel fare artigianale, quella volontà di dar voce ad un certo modo di esprimersi e di fare che lega persone sparse per tutto il pianeta (forse anche oltre).
Sembra, molto spesso, di trovarsi ogni volta di fronte ad un nuovo capitolo di un manifesto internazionalista, quasi con l’intento di trovare un linguaggio comune, un esperanto per chi poco ha e con poco fa e, sempre con poco, registra suoni che risultano sempre espressioni di un rifiuto di un mondo fatto di immagini e nessuna sostanza, un mondo che si dà un tono senza avere nessuna autorevolezza.
GB crede e crea.GB crede e crea, realizza e mette in comunicazione. Se fosse un partito politico, credo proprio che lo voterei, ma, per fortuna, non lo è.
Red Mass “The Taste of Words”, 2023
Credo siano un collettivo che si esprime in vari linguaggi musicali: quando sono punk rock, quando sono Post Punk, quando sono indie rock, quando come meglio ritengono essere. Non danno certezze i Red Mass ed è pure giusto che sia così: una creatività che si esprime sempre in una varietà di registri impressionante rendendo complessa la lettura di ogni loro sortita. Un disco, in fin dei conti, deve essere complesso, stimolare riflessioni, migliorare l’intelletto di chi ascolta.
Nella mappa delle uscite di GB i Red Mass sembrano mosche bianche ma, in fin dei conti, quale gruppo su GB, se studiato con la dovuta attenzione, non è una mosca bianca? Chitarre leggere che si fondono con sortite Noise, una ritmica ossessiva e il tutto che si sposa con voci annoiate e quasi distratte.
Verrebbe da citare i Velvet Underground, per l’ennesima volta, ma sarebbe solo una scappatoia per non parlare in maniera dovuta e puntuale di un disco eccezionale e perfettamente in linea con la nostra contemporaneità: non attaccarsi mai alla normalità, esibire sempre creatività e non disdegnare mai l’assurdo nel vivere quotidiano.
Hood Rats “Rockefeller Funeral”
Bomba quando un gruppo sbeffeggia un multimiliardario suonando robe che paion più fatte di sputi e di sberle che di note. Bomba quando si suona più per limiti esterni che per volontà di comparire, “farcela”; ma farcela a fare che? Questo mondo sta diventando la mostra oscena del “Non ce la faccio più” e qualcuno pensa ancora che “farcela” possa suonare un minimo familiare a qualcuno? Buon per lui, ma meglio per noi che dal nulla creiamo tutto perché in pugno abbiamo solo il niente.
I pugni rimangono stretti su questo nulla fino a quando dal nulla non fuoriescono urla calibrate a tempo col delirio, con l’irriverenza, col Garage che diventa un insulto all’ordine, alla disciplina, al rigore.
Nessuna divisa, solo stracci, nessuna cura, solo ferite. Un disco che è frutto dell’impegno di pochi ma che parla a molti, forse anche a tutti. Lo so, il Punk Rock è un genere di nicchia, è piaciuto molto quando somigliava a tutto tranne che a se stesso, ma se solo ci si rendesse conto che è una delle forme più inclusive, e assolutamente non selettive, d’arte (autoproduzione, lavoro artigianale, linguaggi che cercano di essere sempre comprensibili senza scivolare mai nella bieca piaggeria), forse impareremmo che questo è un cavallo sul quale scommettere; non tanto per “farcela” che è un linguaggio da Rockefeller, ma per migliorarsi.
P.S. copertina del decennio: il Sgt Pepper dei disgraziati!
Zoids “Planet Terror”
-questo video durava 15 minuti, è apparso e poi scomparso da YouTube per poi essere ridotto a semplice videoclip per il pezzo degli Zoids “Kill Hippies” .Io l’ho visto per intero e qui ve lo descrivo, con parole e sensazioni che sono solo mie, non tanto per spronare a ripubblicarlo per intero, quanto per relegarlo a piccolo oggetto di culto e di leggenda urbana-
Immagini di vita comune, pornografia, morte, la musica degli Zoids.
La musica della pornografia, immagini degli Zoids, morte comune, vita. Lo-Fi, bassa fedeltà nella musica, bassa fedeltà nelle immagini. Gli Zoids sono alieni? Il Rock ‘n’Roll è stato inventato dagli Alieni? Il Rock ‘n’Roll sono gli Zoids?
Teschi posti tra le cosce di donne voluttuose in fumetti rubati da un immaginario anni ’70/’80, storie di un percorso autodidatta che dai giornali porno si estendeva alla prima trilogia zombie di Romero per comprendere che mangiare carne umana è come consumare pornografia.
Il Rock ‘n’Roll è solo una versione moderna dei riti Voodoo di Haiti, gli Zoids sembra che questa l’abbiano assimilata, masticata e adesso la risputino fornendo immagini a supporto della loro musica scarna, tribale, alle volte così sfuggente da sembrare non umana.
Questo video è offensivo, va bene così, questo video ti dice solo che va male, andrà peggio fino a quando non andrà più e basta: avete votato l’ordine e la disciplina, adesso scivolate inermi nel vortice della latrina.
–SYF RECORDS, UN DISCORSO FILOLOGICO-
Mi si scusi da subito il fatto che non seguo un ordine alfabetico ma uno filologico, d’altronde è anche vero che la logica ha da trionfare rispetto ai compartimenti stagni dettati dall’ordine costituito; si parte con l’ignorare l’alfabeto, si finisce con il fare a meno di ordini e leggi in nome del buon senso.
A seguire il mio piccolo contributo alla causa:
Josnali “Enemy Talk”, 2023
Partirono azzoppati in casa SYF, limitati e costretti da restrizioni antipandemiche, eppure, incuranti, partirono lo stesso; consci del fatto che avrebbero potuto fallire, essere soggetti a multe, contagi, vituperio; come eroi romantici si buttarono lo stesso nella produzione di piccoli EP domestici, dove la eco di giorni bui e tutti uguali troneggiava in ogni suono, in ogni urlo, in ogni battito.
A quasi due anni di distanza dalla prima uscita, possiamo dire che hanno avuto ragione loro e, si badi bene, non parlo di vincere o di perdere, perché vincere o perdere rappresentano una fine, un cessate il fuoco: SYF va avanti e, nel fare questo, fa il gesto più giusto possibile: si fa internazionalista proponendosi come veicolo di comunicazione per realtà che, altrimenti, sarebbero marginali, si fa forte, cioè, di una certa visibilità acquisita, e ampiamente meritata, nel tempo e la mette a disposizione di gruppi che, come loro all’inizio, soffrono di isolamento ai lati estremi del mondo.
Questi Josnali, indonesiani, ne sono esempio e felicissima dimostrazione di fatto: come pubblicizzato sul Bandcamp di SYF, questa è la cassetta più breve mai licenziata dall’etichetta; breve, e questo sicuro, ma in questa brevità c’è tutta la bontà di un gruppo che sarebbe stato un vero peccato lasciare a se stesso: Egg Punk registrato con poco soldo ma tanto talento e con tutti i giusti requisiti per distinguersi dalla folla di gruppi che da un po’ escono con la precisa volontà di rientrare in questa categoria: nessuna uniformità alle linee guida ma solo un forte senso di appartenenza volto a creare rete, estendere un approccio, un racconto collettivo che, se si ha la volontà di unire i punti, ci racconta benissimo un modo di rappresentare il mondo, con disincanto, divertimento e filosofia Lo-Fi.
Bzdet “KRYZYS”, 2023
Anche se internazionalista, e quindi ben disposta a divulgare su suolo europeo suoni-pensieri-azioni da ogni angolo del restante pianeta, la SYF non dimentica mai che, in fin dei conti, ha iniziato un percorso forte di una capacità rappresentativa sua unica: un post punk ipnotico e claustrofobico, minimale, fatto più di assenze che di presenze; collage sonori la cui natura scarna potrebbe pure fare pensare ad un’improvvisazione estemporanea (e magari all’inizio poteva pure esser vero) ma che in realtà è diventato, col tempo, un esercizio piuttosto articolato e cerebrale, delineando le caratteristiche fondanti di un approccio che, man mano che i suoi gruppi vanno avanti lungo il loro percorso artistico, diventa sempre più ricco, complesso ed argomentato.
Qui gli Bzdet, sempre da Stettino-Polonia, partiti con suoni secchi, Lo-Fi da Tascam, palla al piede e dritti nelle tribune, arrivano ad un Post Punk ipnotico, lisergico, che trova una logica solo se si hanno ben presenti i trascorsi dell’etichetta tutta.
Si afferrano chiaramente dettagli come l’aggressività d’avanguardia dei Kiloff e i mantelli magici e mesmerici dei Druty. Gruppi che si creano per caso, si mescolano, diventano marchi di fabbrica e fra loro si influenzano (per non dire che si contagiano, giusto per riallacciarsi ai primi vagiti pandemici dell’etichetta): un traguardo sonoro raggiunto da uno diventa così il dominio di tutti. Impossibile mi è il parlare di ogni uscita SYF senza tirare in ballo la filosofia dell’etichetta stessa; ho iniziato tempo fa, quando ancora vantava “solo” una decina di uscite, a tesserne le lodi e oggi mi ritrovo, ogni mese, a cercare di capirne le evoluzioni e le involuzioni.
Mi rendo conto, arrivato a questo punto, di essere solo uno scribacchino, un mero interprete, di un racconto più grande di me: orizzontale e non verticista, cooperativo e non individuale, la storia di SYF è sempre in corso d’opera e io non faccio altro che rincorrerla, sperando sempre di esserne solo un buon compagno di viaggio.
Legume Sex “LPette”, 2023
Nel nome del gruppo e nello svolgimento del nastro c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno: assurdità (il nome del gruppo: sesso fra legumi, una cosa talmente impossibile da pensare che verrebbe quasi da gridare al genio senza nemmeno ascoltare il disco) e semplicità (un duo chitarra/synth e batteria, due voci, una maschile e una femminile che si rincorrono e che si alternano…). Assurdi nel nome, nei titoli; semplici nel porsi, proporsi e quindi imporsi.
La prima cosa che mi viene a mente, ascoltando i Legume Sex, è l’ambiguità insita nel verbo jouer: in italiano si può tradurre sia come suonare che come giocare; insomma, per un francese, suonare è un po’ come giocare e, sia ben chiaro, in questo, una cosa non svaluta l’altra ma, anzi, la impreziosisce e rende l’ascolto stimolante, focalizza l’attenzione, ci si fa domande riguardo le semplici ma geniali trovate in fase di armonia ed arrangiamento.
Si, non c’è dubbio che sia uno: i Legume Sex suonano come giocano ed è in questo la loro forza, la capacità di produrre in modo semplice e spontaneo, riff, battiti, armonie vocali capaci di rimanere incisi in modo perenne nella corteccia di chiunque senza ambire a composizioni troppo articolate o esageratamente studiate.
Non c’è la volontà di piacere per forza ma di proporsi solo per quello che si è: riescono, a mezzo di una notevole capacità di intervallare componenti antitetiche fra loro, a fare digerire il Punk Rock ai cultori del Bedroom Pop e l’Indie Rock alla Beat Happening agli Hardcore Kids più intransigenti, e, tutto questo, solo ed esclusivamente facendo uso di una dolcezza armonica di fondo e ad un’irruenza d’esecuzione che, proprio perché immediata e artigianale, non confonde le idee ma, caso mai, le stimola.
Sono un uomo e una donna i Legume Sex ed è in questa composizione/contrapposizione di mentalità e di vissuto personale che sta tutta la loro bontà: Legume Sex è quasi un’attuazione in musica del concetto di mente androgina esposto da Virginia Wolf in “Una stanza tutta per sé”, parlare cioè una lingua che esprima il sentire di due generi che la storia ha messo come avversari (per dominio, amministrazione, iniquità nel trattamento dell’una a scapito dell’altra) e unirli costringendoli in un vocabolario comune…
Losers Parade “Restless”, 2023-Flamingo Records
Un connubio di quelli particolari; sospesi tra uno Stoner Rock dai suoni saturi e dalle armonie a senso, ma con un incedere serrato, in un mid tempo che rende il tutto più frontale e arrogante. Finalmente tornano gli assoli, mai di troppo ma caso mai opportuni, che ben si sposano con l’atmosfera generale. Hardcore Punk si potrebbe dire (la voce aiuta molto a pensarlo, vicina ai registri di tanto Hardcore newyorkese di scuola Positive Crew), ma a metterla così parrebbe di dire veramente molto poco; per quanto Ve l’abbia messa come una sorta di zibaldone sonoro che parrebbe più una manifestazione di idee confuse, in realtà i Losers Parade, pur esibendo chiaramente i loro riferimenti musicali, si destreggiano in maniera esemplare, amalgamando il tutto in un condensato che lascia stupiti: coinvolgono e non annoiano mai, tanto che si finisce ad entusiasmarsi senza pensare troppo a cosa hanno preso in prestito (o, meglio detto, rubato, come fanno di solito i veri artisti) da altre formazioni oramai storicizzate.
La musica in fin dei conti è un saper mettere insieme le varie influenze: nessuno inventa niente, tutto si ruba per poterlo distruggere e riassemblare i frammenti a proprio piacimento.
Non è un gruppo che si fa troppi problemi, quindi, i Losers Parade ma, anzi, riescono a fare convivere fra loro elementi antitetici (riuscite a pensare a qualcosa di più distante dal Positive Crew come lo Stoner?) e a risultare più che credibili.
Nightman Demo 2023-Music from Ass, Painters Tapes
Jeff dall’Indiana ha mollato l’etichetta Loopy Scoop Tapes, e, anche se non posso fargliene un torto, un po’ spiace.
L’Autoproduzione è un valore, una pratica necessaria in questi tempi fatti di gente che individua il più cattivo in una moltitudine di presenzialisti televisivi con un pensiero politico da quinta elementare, e lo vota per farsi comandare a bacchetta. Ma, come già preannunciato, Jeff ne ha ben donde: ha già 5/6 gruppi, da solo e in combutta, da quel che mi ha scritto pare che voglia venire in Europa per un Tour che, mi auguro, passi anche dall’Italia…stare dietro a tutto è quasi impossibile e quindi, giustamente, meglio dedicarsi alla sola arte di fare uscire dischi grandiosi che, comunque sia, vengono stampati e distribuiti da gente che, come lui, ama fare tutto da sé.
Questo suo nuovo Alter Ego, Nightman, è quanto, se non di meglio, di più maturo e completo che abbia sfornato fin’ora: c’è l’irruenza di Djiin, la rabbia artigianale di Zhoop, i synth naif ed irresistibili di Feed e un certo spirito Devo di Brundle…pare quasi che tutto quello che ha fatto finora sia stato fatto solo per arrivare a questo: un gioiello, sempre di materia grezza ci mancherebbe, di sintesi ed invenzione in pezzi da un minuto si e no. Non ha l’abitudine di lasciare abbozzato niente, per lo meno per quello che rientra nella categoria dei progetti musicali, quindi si suppone che questo Nightman convivrà con gli altri Alter Ego di Jeff, attingerà da loro e loro attingeranno da lui, in un fantastico percorso che, l’interruzione dell’attività di Loopy Scoop Tapes, non scalfirà minimamente.
Senza spostarsi troppo dal suo asse Jeff riesce sempre a risultare straordinario, a suonare fresco e spigliato
Nosferatu “Blood N Blitz “, 2023-Sound Grotesca
A me l’hardcore non è che faccia proprio impazzire, in genere preferisco altro modi di interpretare il Punk, e, quando invece mi fa impazzire, mi chiedo sempre come mai: il fatto è che questi Nosferatu son ferini e selvatici, non si curano mai di avere dei suoni ben definiti e sganciano canzoni come se fossero mine.
Una raccolta con una fraccata di pezzi, neanche da un minuto l’uno, roba che ad ascoltarla dall’inizio alla fine ti si azzerano le capacità cognitive.
E va bene così: se il concetto che sta dietro al termine Hardcore, riferito ad un genere (in questo caso specifico, appunto, il Punk) rappresenta l’estremizzazione di questo e una resa tutt’altro che piacevole, da semplice sottofondo, allora direi che qui ci siamo ampiamente. Si potrebbe pure dire che questa è solo una raccolta di Demo del gruppo, ma è anche vero che i Nosferatu non escono mai da quest’estetica e da questi metodi anche nelle uscite più “ufficiali”.
Non c’è un inno da cantare, qualcosa sul quale adagiarsi ed abituarsi, solo lasciarsi trascinare in un vortice Power Violence che ti spazza via e ti spezza in due.
Parking Lot “My Life Is A Mess”, 2023-Phantom Records
La cosa che più amo in questo disco è che il gruppo è di Lipsia e si sente; vero che è molto indie rock anni ’90 (Modest Mouse? Built to Spill?) però è altrettanto vero che sono perfettamente in linea con la ricerca sonora in atto in quel di Lipsia: prendere l’Egg Punk, fonderlo con la Neue Deutsche Welle e da questa fusione ottenere un suono che sta diventando un tratto distintivo per i gruppi provenienti da quella città. Spiegarvelo certo non saprei con semplici parole, poiché inizia ad essere piuttosto unico, ma vi posso segnalare che questo “My Life Is a Mess” ripartire da un altro disco suo compaesano: Human Pork dei Doc Flippers del 2022.
Il trattamento sulla materia Indie pare più un punto di arrivo a fronte di un percorso iniziato col punk. Pizza House, EP uscito nel 2020, era una prova di Punk Rock strafatto di Post Punk, raffinato e ben suonato ma non tanto quanto questo che dimostra una maturità compositiva raggiunta in quanto, esattamente come nel caso dei Doc Flippers, lascia l’impressione che i Parking Lot scrivano canzoni non tanto “Sull’idea di” ma molto di più a loro immagine e somiglianza.
Certamente la vena Indie Rock traspare ed è evidente, ma viene più utilizzata per incrementare il vocabolario dal quale il gruppo attinge per poter diventare unico; quindi il suono viene addomesticato, diviene solo mezzo di espressione e non più fine: il vero fine è quello che i Parking Lot lasciano in ultimo su nastro, ultimo passaggio di un procedimento che accumula imput, li frantuma e li riassembla secondo suo criterio e discernimento.
Poster Fantasi “Poster Fantasi”, 2023
In Argentina devono avere un culto per le melodie immarcescibili, di quelle che ti si piantano nella corteccia e ti emozionano fino al punto di toglierti il respiro. Mi è capitato ascoltando i Joaco Van il mese scorso e con gli Amatista il mese ancora prima: due gruppi che son due garbugli squisiti di Punk Rock, Shitgaze e un che di Sarah Records. Roba semplice semplice ma che, senza mai risultare insistente, ti fa innamorare fino alla perdizione.
Questi poster fantasi sembrano un incrocio tra i Boyracer e quel Punk Rock emotivo di scuola Jawbreaker (quelli di Bivouac e Unfun): niente che, in un primo momento, parrebbe aver l’intenzione di sconvolgerti; batteria, chitarra, basso e una voce malinconica che parla di piccoli gesti, scambi di sguardi, amori da cinque minuti… eppure sempre quel lavoro azzeccato tra armonia vocale, trame strumentali e ritmica serrata che si rinnova nel sentire individuale di ogni musicista messo in campo all’occasione.
Un disco che fa intenerire ma al contempo fa venir voglia di urlare, un po’ come succede a chiunque quando , alla verifica dei fatti, comprende che il mondo che lo/la circonda non gli/le somiglia per niente, poiché è un mondo, questo, dove i profitti e i doveri come da contratto la fanno da padrone, e allora, per amore di resistenza, di opposizione, di alternativa, inizia col prodursi nell’atto più rivoluzionario concepito da mente umana: inizia a riscoprire e a provare dei sentimenti che l’attività produttiva (e servile) gli ha fatto accatastare in un angolo remoto del cerebro. Un disco per rimanere umani rimanendo incazzate/i.
Receptacles “The Pie”, 2023-Maternal Voice
La metrica regolare e la ritmica irregolare, una parentela con il Free Jazz ma un indole più che altro Post Punk: assenza, presenza, struttura apparentemente irregolare (no, non lo è), rumorismi che paiono buttati lì per infastidire e invece no, non lo fanno; dietro le quinte il fantasma di Mark E. Smith sorseggia un Martini con l’oliva e se la ride.
È un caos organizzato quello dei Receptacles, una musica che segue il racconto fatta da una voce beffarda o forse è la voce beffarda che si lascia trascinare dalla musica e si produce in storie ironiche e grandguignolesche.
Sembra vada tutto in pezzi, che i Receptecles inizino a suonare totalmente a caso, eppure così non finisce mai: ci vuole metodo per generare confusione, ci vuole tecnica per mettere in discussione la stessa, non bisogna lasciare niente al caso perché sembri che tutto vada a rotoli ma l’ascolto rimanga attento ed interessato.
L’abito cubista di un arlecchino contemporaneo, un abito che rappresenta la confusione strisciante nel pensiero di un popolo che non sa più dove guardare: non esiste più la regolarità dei rombi ma figure non euclidee: l’unica certezza è che abbiamo davanti un vestito che ci ricorda quello della famosa maschera popolare ma il suo tessuto parla di altro, è assurdo, ma assurdo Arlecchino lo era già di per sé: quindi via le figure geometriche regolari, dentro lo spettacolo della vita che di regolare non ha più niente.
Purtroppo e per fortuna.
Sarin Reaper Noxious Black Vomit, 2023-Dirtbag Distro
E suonalo il metal se ti viene spontaneo che di vergogna non c’è mai di che provarne: prendi quel senso di disagio del Black Metal norvegese prima scuola, quella gratuità concettuale del Death Metal alla Cannibal Corpse, usa come coagulante il Grind Core più sboccato e più blasfemo e poi cantaci sopra come se ti avessero appena posseduto le streghe di Salem. Una macina che frantuma scostumata ogni buon senso e buon gusto, d’avvento contro il buon costume e prende a schiaffi ogni buon samaritano.
Qui di “buono” filosoficamente inteso non c’è neppure l’ombra: l’accidia regna incontrata e, come suo mestiere, si produce in malie e maledizioni. Poesie sul vomito nero, putrefazioni masochiste, gole squartate e cover degli Anti Cimex (la brutalità più brutale della brutalità stessa).
In tutto questo nero pantano però c’è un che di divertente che sembra più discendere dal Punk Rock che dal Metal; quel sotteso senso di presa per il culo che una mostra così atroce di miserie umane e disumane porta forzatamente dietro sé e che, nella sua goliardia di fondo, fa passare l’intero insieme come una delle cose più serie uscite in questo primo trimestre del 2023.
Teo Wise “Less Go”, 2023-Dirtbag Distro/Spya Sola Records
A me la cosa che fa venire in mente per prima, queso benedetto Teo Wise, è che troppo spesso mi scordo di vivere; non lavorare, scrivere, parlare, pensare o invecchiare, ma proprio vivere: l’atto in sé e per sé, che inizia e finisce con il suo semplice atto compiuto e totalmente indipendente da quello che devi fare per farlo. Vivere e basta, con un trasporto smodato, senza volontà di pensare ad un domani, perché vivere non è mai un gesto finito ma è sempre in divenire.
Sfruttando un’estetica DIY, un suono Lo-Fi e un lessico poliglotta da vero contrabbandiere e delinquente (quando canta in inglese sembra quasi francese, quando canta in italiano sembra un viveur dei bassi fondi) Teo parla vari linguaggi musicali asservendo il tutto al suo Garage Pop un po’ Burger Records e al suo Punk Rock un po’ anni ’90 italiano (prendete come riferimento tutte quelle piccole perle in 7”, co-prodotte da decine di etichette indipendenti, uscite entro il decennio, fatte di punk rock, bottiglie da 66cl di Moretti, e nomi di ragazze che, a seconda dei casi, sono robot, metallare, aliene o punk rocker), condisce il tutto con un po’ di Synth Wave anni ’80, qualche rap vocale e tanto divertimento; perché questo Teo Wise si diverte e si sente: un divertimento ragionato e mai banale che non può non contagiare chi lo ascolta, perché Teo Wise ha quella dote straordinaria, insita nei migliori artisti, che è appunto il saper rispondere alle domande esistenziali di chiunque senza neanche volerlo fare: la vita ti annoia? Ubriacati! Il lavoro ti toglie ore e capacità di immaginazione?
Imboscati e scrivi recensioni su di un disco che ti piace (come sto facendo io in questo preciso momento). Insomma: non si sa da dove venga, Teo, non si sa dove sia diretto, ma, e questo è certo, viene voglia di seguirlo.
Timber Rattle “Ghost or White Pavillion”, 2023-Zen Hex
(Il disco-cassetta non è ancora uscito, voi tenete d’occhio/seguite il Bandcamp di Zen Hex e vi troverete bene).
Due brani, o due suite, da mezz’ora l’uno. Si distinguono in tre movimenti per pezzo anche se, in fin dei conti, tutto rimane nella solita scala: staticità, immanenza, stimmung e il tutto che si muove seguendo un’alternanza tra elegie e cori in minore come anche in maggiore, pur mantenendo una coerenza sonora che devia volentieri dal concetto di un semplice concept album (cosa che, agli effetti, è ma, al contempo, non è) e fa pensare più ad una composizione post-classica, una sorta di celebrazione pagana, dove il bene convive con il male (o la morte convive con la vita) e una componente non esclude l’altra ma, anzi, si fondono e si includono l’una con l’altra; un’orchestra che, anziché schierare archi, fiati e cori, fonda tutto su di un’empatia generata dal suono e che crea connessioni col nostro sentire primigenio: le emozioni che stimola sono i fiati, i ricordi primitivi sono gli archi, una diversa visione del tutto i cori.
Entusiasma sempre ascoltare prove così, immaginarsi una persona sola, nella solitudine di una stanza, realizzare cassette così: questo è quello che dovrebbe spingere chiunque a suonare, far capire che la musica non è per forza successo e fama ma è anzitutto una forma di espressione e un potente mezzo di comunicazione (gestito sulle frequenze dell’empatia e non di un algoritmo). Timber Rattle fa musica perché la musica per lui è urgenza, esigenza e poco importa se ha appeal oppure no: la propria capacità comunicativa va imposta e mai sottomessa ai gusti del pubblico (il pubblico è concetto astratto e una leggenda urbana quanto l’amore a prima vista); molta musica underground ha perso mordente proprio perché, a un certo punto, ha iniziato a pensare troppo alla reazione di un ipotetico pubblico rispetto alla propria arte: niente di più sbagliato.
Timber Rattle è la musica che suona e se quello che porta in sé e che da base alla sua filosofia di essere umano si realizza con due pezzi da mezz’ora l’uno, ben venga.
Uma Vox “Golden Agers”, 2023-Turbo Discos
Sarà pure il fatto ch riprendono un classico degli Ex White di Lipsia che li ricollega forzatamente al Punk, ma questi Uma Vox, col punk, c’entrano e non c’entrano.
Il Punk senz’altro è una tra le idee che li ha fatti mettere insieme ma, in corso d’opera , hanno scelto di buttarsi altrove, oppure di prendere direttamente il Punk e portarlo chissà dove: voci trattate, batteria alla Maureen Tucker, melodie ed armonie collegate direttamente ai canali percettivi di un corpo disteso su di un letto, domenica pomeriggio, fuori piove. Glitch Pop, per certi versi, una forma sonora che fa subito pensare ad Ariel Pink nei suoi primi vagiti sonori ma che la base Punk Rock irruvidisce e plasma in un qualcosa di molto più frontale e volutamente sgraziato (e quindi molto più umano, molto più vicino al sentimento per quello che è e non per come volessimo farlo sembrare).
Un piccolo gioiello che potrebbe conoscere sviluppi entusiasmanti se non addirittura rivoluzionari. Io aspetto e intanto mi delizio.
Yamamara “Volatile Contents” 2023
La cosa migliore che puoi fare, se suoni in un gruppo Crust o, più semplicemente, suoni in un gruppo di persone a cui piace il Crust e non è detto che l’idea di base sia proprio fare Crust, ma magari portare avanti il suono Crust facendolo interagire, se non quando proprio cozzare, con altro, dato che, vai a sapere, magari siete tutti esperti di Crust, avete gli scaffali di casa che strabordano di dischi Crust, un guardaroba pieno di giubbotti con le toppe di Discharge/Disclose/Disfear; e allora, forse, può pure darsi che vi mettiate, con due giri in croce in odore di Crust come base, ad improvvisare, buttarla letteralmente lì, senza curarvi troppo se il risultato potrà essere giudicato Crust o meno…ecco, secondo me la genesi di questi Yamamara è avvenuta così e il suo risultato mi lascia più che soddisfatto: nel voler fare una semplice prova, registrandosi durante questa, buttando lì idee e proposte, lasciando tutto all’intuito, all’istinto, al come viene viene.
Non esiste musica politicizzata che tenga a fronte di una rappresentazione nuda e cruda come questa: l’attuazione di un pensiero libertario che si sposta e muta a seconda delle esigenze del momento. Nessuna fissità, niente di definitivo, solo uno spirito libero che fa il suo mestiere: vedere oltre la coltre grigia e librarsi verso nuovi orizzonti.
Wasted Pido “How? Now!”, 2023
Lasciatemelo dire: Wasted Pido è bravo. Ma un bravo speciale, sul tipo del fuori classe, di quelli che da soli danno uno stile ed una definizione nuova al giro di appartenenza.
Lo stile da One Man Band viene qui rimodellato secondo canoni esterni a quello che di solito viene associato a questo filone: elettronica economica, un po’ di stoppato che fa Hardcore Punk (ma che viene comunque screziato con dei fraseggi bluesy), qualche accenno di Jazz commerciale, e qualche numero da vera One Man Band (Non è colpa d’Alfredo, How, Parrot) il tutto che convive perfettamente, descrivendo un autore originale al quale le facili definizioni non piacciono per niente e il ruolo di persona con chitarra e batteria rudimentale sta un po’ tanto stretto. Nel suo percorso solitario rompe gli schemi, affronta nuovi territori e, bene precisare, ne esce più che convincente.
Partendo da una filosofia di fondo piuttosto solida (un piglio quasi da blues del Delta, una voglia di esplorare nuove possibilità con pochi mezzi e portare a casa un risultato soddisfacente) Wasted Pido alza l’asticella e propone nuove vie: si sente un sax, un synth, una Drum Machine e la volontà tangibile di andare oltre e non fermarsi al concetto di nicchia.
Un disco che, ovviamente, è stato registrato con poca spesa ma che conferma, ancora una volta, che proprio nel suono dal basso son già presenti tutti gli strumenti necessari per creare cose convincenti e stimolanti; non occorrono grandi studi di registrazione, strumenti costosissimi e ospitate altisonanti: bastano le idee, l’esperimento, qualche amico con le stesse vedute (se no che amico sarebbe?) e, come sempre, poeticamente, due spiccioli e via.
Zipper “Don’t Fit 5” Lathe”, Richter Scale Tapes
Il punk non è morto perché lo spirito degli Infest non è morto, anzi: vive, si sposta e contagia. Voi siete morti. Due pezzi che non bastano e non avanzano ma che costringono a chiedere di più, come se al termine di questi due fulmini a ciel sereno si rimanesse in uno stato di astinenza non soddisfatta. Strutture create dagli Infest ma qui onorate e rinnovate, tradotte in linguaggi e suoni che son del 2023 come erano del 1987.
La musica non cambia in un mondo che rimane sempre uguale, la rabbia è sempre la solita di fronte alle ingiustizie perpetrate nel nome di un presunto “ritorno alla normalità” che giova sempre ai soliti e mai agli ultimi. Beccatevi dunque questi due pezzi dritti in faccia: Fast Core spigliato ed arrogante, un fare sapiente nel gestire il minimalismo negli arrangiamenti. Tutto pare grezzo ma in realtà è magnifico nella sua poesia dal basso: senza un dio, senza un governo, senza una speranza, senza un guadagno; quando il fare senza esagerare dimostra che, ad ogni buon conto, è meglio fare così.
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