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Recensione : MUDHONEY – PLASTIC ETERNITY

Dopo tre decenni e mezzo, tra alti e bassi, sono ancora qui tra noi, arrivando a pubblicare il loro undicesimo studio album, "Plastic Eternity"

MUDHONEY – PLASTIC ETERNITY

Penso che in pochi, alla fine degli Eighties, avrebbero scommesso sul fatto che una band di sgangherato rock ‘n’ roll come i Mudhoney, apparentemente fedele al motto: “Hope I die before I get old” di Whoiana memoria (e anche alla massima: “Vivi rapido, muori giovane”) potesse arrivare a tagliare il traguardo dei trentacinque anni di percorso e avventura musicale.

Difficile immaginare che lo stesso combo di giovani rovinati totali (almeno agli inizi) devoto alla immancabile triade sesso-droga (e alcool, soprattutto)-R’N’R e autore di un anthem di garage punk marcio come “Touch me I’m sick“, autentico inno all’autodistruzione da lerci ubriaconi, all’autocommiserazione caciarona e al sarcasmo cialtrone (nonché, a posteriori, “vero” brano simbolo del movimento musicale underground di gruppi che proponevano un genere inclassificabile, un ibrido punk/metal/hardcore/hard rock/psichedelia germogliato a Seattle agli inizi degli anni Ottanta grazie all’attività prima sotterranea, poi overground della Sub Pop Records, autentica mattatrice del “Seattle Sound” e degna prosecutrice del prezioso lavoro svolto sottotraccia da pionieristiche label cittadine come la PopLlama, e grazie alla musica di prime movers come gli U-Men, i Skin Yard di Jack Endino, i Young Fresh Fellows, i Fastbacks, i Soundgarden, i Malfunkshun, i Melvins dalla vicina Aberdeen (WA), i Girl Trouble di Tacoma, gli Screaming Trees da Ellensburg, i Beat Happening e la lezione della K Records di Olympia, i TAD e i Green River che vedevano in formazione due membri pre-Mudhoney, e che sarebbe poi esploso a livello globale agli inizi dei Nineties col boom commerciale di Nirvana e Pearl Jam, e che sarebbe stato etichettato dal mainstream come “grunge”) potesse andare oltre la “sbornia” di un Ep leggendario come “Superfuzz Bigmuff” e un paio di dischi registrati nel “periodo d’oro” mediatico del genere musicale più in voga (fino all’aprile 1994, per tristi noti motivi, anche se il carrozzone avrebbe vivacchiato ancora per un paio di anni, prima di spegnersi definitivamente) destinato a durare poco tempo e a bruciare in fretta, divorato dai postumi sensi di colpa per il “salto” compiuto dal sottobosco indie all’universo major, con conseguente perdita della genuinità della piccola comunità originaria, ma soprattutto dai nefasti effetti delle droghe pesanti sui musicisti (Seattle in quegli anni era una delle capitali mondiali della diffusione e consumo di eroina, ben prima di diventare l’Eldorado dell’informatica e dell’e-commerce con Microsoft e Amazon, oltre a essere culla della rinomata catena di caffetterie Starbucks) poi dalla zizzania seminata dalle riviste musicali e di gossip (in un continuo tentativo di mettere uno contro l’altro i gruppi più famosi della scena) dal mondo dell’alta moda che aveva fatto del “grunge” uno stile di abbigliamento glamour ultracostoso (fraintendendo completamente, un po’ come accadde anche con la rivoluzione estetica, concettuale e musicale del punk rock tre lustri prima, l’origine stradaiola e working class del movimento, con le famose camicione di flanella, i cappelli di lana e gli scarponi usati dai lavoratori e dalla gente comune per difendersi dal clima uggioso/piovoso del Nordovest statunitense) dall’iperinflazionato e imploso sistema di “scouting” frenetico perpetrato delle grandi etichette discografiche che, pur di scovare “i nuovi Nirvana”, avevano saturato il mercato e l’etere di band-fotocopia che nulla avevano a che spartire con Seattle e con l’humus culturale primordiale di quella nidiata di gruppi pre-1991, e infine dal “successo” su scala mondiale che aveva improvvisamente travolto ragazzi di provincia di venticinque anni non preparati a un’esplosione di notorietà così dirompente, passati da un giorno all’altro dal suonare nelle taverne cittadine, di fronte a poche decine di spettatori, al passare in heavy rotation su MTV, raggiungendo in pochi minuti milioni di case coi propri videoclip 24 ore su 24, e all’affrontare tour mondiali nelle arene e negli stadi, chiamati a intrattenere (volenti o nolenti) milioni di persone in giro per il globo, con tutti gli eccessi e i disagi che ciò comportava a livello fisico e psicologico.

E invece i Mudhoney, insieme ai succitati Melvins e Pearl Jam, sono stati tra le pochissime formazioni della prima ora a essere sopravvissuti al ciclone mediatico del “grunge” (senza mai sciogliersi, a differenza dei Soundgarden e degli Alice In Chains attuali, riformatisi dopo la morte del frontman originario, Layne Staley) e, dopo tre decenni e mezzo, tra alti e bassi, sono ancora qui tra noi, arrivando a pubblicare il loro undicesimo studio album, “Plastic Eternity“, uscito sulla Sub Pop (e non poteva essere altrimenti) l’etichetta da cui avuto inizio l’epopea del “grunge” e la prima a credere nelle potenzialità del quartetto composto dal leader e frontman Mark Arm (che ha letteralmente dato anima e corpo per la label, lavorandovi anche fisicamente, come magazziniere) dal chitarrista Steve Turner, dal batterista Dan Peters e dall’ex Melvins Matt Lukin (poi sostituito al basso, nel 2000, da Guy Maddison).

Prodotto dal collaboratore di lunga data Johnny Sangster (che ha anche contribuito alla riuscita di alcuni brani, a livello di songwriting, decretando la prima volta in cui un membro esterno al complesso viene citato nei credits) il disco ha risentito delle limitazioni logistiche dettate da imprevisti vari (la decisione del bassista Maddison di tornare a vivere in Australia con la sua famiglia) e dal periodo pandemico che, per la prima volta, ha costretto i nostri a non poter provare e rifinire le nuove canzoni tutti insieme per almeno un anno e mezzo, costringendoli poi a registrare tutto il materiale (spesso soluzioni solo abbozzate e improvvisate, ritoccate al momento dell’incisione) in soli nove giorni, e a volte qui e là si percepisce l’impressione che non tutto il lotto delle tredici canzoni dell’Lp sia stato messo efficacemente a fuoco, per le restrizioni dovute principalmente al covid, che non hanno consentito ad Arm e compari di usare il loro consueto modus operandi nella lavorazione a un nuovo full length.

Col sarcasmo acido, il sense of humour e la lucida vena polemica sulla società contemporanea che da sempre caratterizza le liriche dei loro pezzi, “Plastic Eternity“, pur nella sua precaria fretta compositiva, sembra essere retto da un filo conduttore incentrato sulla visione disincantata della band riguardo alcuni tra i problemi di più stringente attualità che stanno attanagliando il mondo intero, in primis la questione ambientale, la “plastic(a)” del titolo, la sua sovrapproduzione, il suo abuso, mancato riciclo e cattivo smaltimento (coi conseguenti danni sulla vita quotidiana di tutte le specie viventi per i prossimi decenni a venire) e del riscaldamento globale del nostro pianeta e l’inquinamento della sua acqua, aria e suolo causato dall’azione tossica dell’essere umano che da almeno due secoli sta accelerando il processo di distruzione dell’Ecosistema terrestre. In questo senso, i titoli di canzoni come “Here comes the flood” e “Cry me an atmospheric river” (due garage/grunge rock alla Mudhoney) l’esplicita “Plasticity” (un rumoroso rock ‘n’roll curiosamente segnato dall’utilizzo di un vocoder) e “Cascades of crap” (un alt. rock senza infamia e senza lode) non sembrano lasciare spazio a dubbi, una denuncia in musica che magari un giorno possa portare le classi dirigenti, “imprenditoriali” e politiche di questo pianeta ad aprire gli occhi, smettere di colonizzare altri pianeti per nuove capitalistiche corse all’oro (e farne una meta turistica per clienti nababbi) e intraprendere un cambio di paradigma etico in funzione anticapitalista e anticonsumista, per la salvaguardia delle forme di vita (umana, animale, vegetale) sul globo terracqueo.

I am the weather, you are just human
You make me stronger, ‘cause you just can’t stop polluting
I will always be here, heating and cooling
It doesn’t matter to me what happens to the humans“.

(Mudhoney – “Cry me an atmospheric river”)

Ma c’è spazio anche per trattare di altra odierna “spazzatura” metaforica: non solo i rifiuti prodotti dal genere umano, ma anche il trash della malapolitica (“Flush the fascists“, costruita su un insolito loop synthetico, si scaglia contro le persone pericolose e inaffidabili che incarnano la regressione socio-culturale di questi tempi bui moderni, flagellati dalla banalità del male, dalla convinzione generale che l’unica risoluzione di ogni controversia si ottenga attraverso conflitti armati e guerre (inclusa una sempre crescente tentazione di ricorrere a un olocausto nucleare) povertà in aumento, disoccupazione crescente, diseguaglianze sociali sempre più marcate, corruzione dilagante, fake news dannose, pandemie sanitarie e finti santoni che in televisione ingannano milioni di individui spacciando per cure efficaci contro il covid l’ingestione di farmaci antiparassitari per cavalli, un sistema capitalistico che ha prodotto e sta producendo solo tumulti, fame, miseria economica-morale, schiavitù e milioni di morti) dei disastri ambientali e sociali causati dai meccanismi del capitalismo neoliberista (cioè il mantra “produci-consuma-crepa” declinato in lingua inglese nei due minuti della veloce e punkettona “Human stock capital”: “They’ll work you till you drop, you’re just human capital stock, there will always be someone to take your place, someone who’s more desperate than you“) uno schifo contro il quale i Mudhoney incitano a ribellarsi (in “Move under“, un solido rock ‘n’ roll e canzone di protesta nata da una jam).

Ma, in mezzo a un mare di guai, trovano posto anche due canzoni d’amore sui generis: le “genuine love songs” sono il cadenzato heavy rock “Tom Herman’s Hermits“, rivolto al chitarrista dei Pere Ubu, Tom Herman, uno dei chitarristi preferiti di Arm, che non si capacita del fatto che un personaggio influente come lui non abbia ancora una pagina dedicata su Wikipedia, mentre l’altra è una dichiarazione d’affetto e riconoscenza per i cani, e soprattutto le piccole gioie quotidiane che regalano il prendersi cura dei cani di piccola taglia, nella conclusiva “Little Dogs“, con una menzione speciale per il cane di Mark, Russell. Tra gli altri momenti del disco, la trascurabile “One or two” (che suona come un riempitivo) e detto del primo singolo estratto (e forse migliore brano dell’album) “Almost Everything“, unico pezzo già in gestazione da tempo nel carniere del gruppo, dal taglio psichedelico ispirato agli inglesi Sam Gopal (e che in una prima fase era intitolato proprio “Gopal”) in cantiere da anni, prima della sua forma definitiva, segnaliamo l’interessante “Severed Dreams In The Sleeper Cell“, dall’incedere reiterato e ipnotico, inframmezzato da esplosioni elettriche (e un Arm particolarmente ispirato) e l’opener “Souvenir of my trip” sembra quasi voler fare un bilancio di questi trentacinque anni di “carriera” (che brutta parola!) del protagonista: “Tutti dicono che è bello che io sia tornato, ma non sono certo di dire dove mi trovo, tutto sembra rimasto ancora uguale, ma posso dire che tutto è cambiato. Cosa è rimasto di me? Quel che resta è il souvenir del mio viaggio“. Ma i nostri possono star tranquilli, ché in questi tre decenni hanno seminato bene, raccogliendo consensi e stima in giro per il mondo (con una particolare predilezione per l’Australia, terra dei loro ascolti di garage punk primordiale con gli Scientists e i Feedtime).

Non il miglior studio album dei Mudhoney, ed è anche giusto non aspettarsi capolavori da una band che, in trentacinque anni di onesta parabola guidata dall’attitudine punk, ha sempre puntato tutto su istinto, sentimento e impatto fisico, in barba a tecnicismi e pretese da virtuosi perfezionisti degli strumenti, ma nel complessoPlastic Eternityè un buon comeback, date le vicissitudini che lo hanno generato. E poi il 7 aprile è stato ufficialmente riconosciuto come il “Mudhoney day” , attestato rilasciato dalla contea di King (Seattle) che certifica a Mark Arm e soci l’essere stati molto Mud e poco honey per tre decenni e mezzo: una formazione musicale che si lega a vita con la storia dei propri luoghi di origine, pur essendo nota e apprezzata in tutto il mondo. Quanti dinosauri progsters o metallari o di altre categorie di musicisti ossessionati solo dal riempire le proprie canzoni con miliardi di note possono dire di essere stati gratificati con premi altrettanto prestigiosi?

 

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