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Recensione : L’arte della fuga di Fredrik Sjöberg

Un giorno Sjöberg resta folgorato da un dipinto e scopre che l’autore del quadro, lo svedese Gunnar Widforss (1879-1934), è sconosciuto in Europa tanto quanto amato in Nord America;

L’arte della fuga di Fredrik Sjöberg, edito da Iperborea

Un giorno Sjöberg resta folgorato da un dipinto e scopre che l’autore del quadro, lo svedese Gunnar Widforss (1879-1934), è sconosciuto in Europa tanto quanto amato in Nord America; comincia così l’avventura dello scrittore sulle tracce di opere, lettere e fonti sperdute per ricostruire la vita di questo inquieto acquarellista: un viaggio che lo condurrà in Nevada, Arizona e Colorado attraverso la storia delle riserve, naturali e indiane, col dubbio se servano più a proteggere o a ghettizzare.

“L’arte della fuga” (2006) è un racconto che si snoda tra curiosità storiche e aneddoti spassosi come quello del tacchino che Benjamin Franklin voleva al posto dell’aquila come simbolo degli Stati Uniti.

 

Potrete leggere passaggi come questi:

 

  • Gunnar Widforss (…) non è senza una certa costernazione che racconta delle sparizioni notturne e delle deportazioni in Siberia. “Nemmeno i parenti sanno dove vanno a finire.”
  • Come sono in genere le dottrine salvifiche di successo (…) era una miscela ben bilanciata di truffa e di banalità (…).
  • All’epoca dell’arrivo dei primi europei le diverse culture indiane erano sparse sull’intero continente americano. Quel che accadde dopo è ben documentato: una storia dolorosa, talmente oscura e barbara da far sembrare buona e umana, almeno se pensata come soluzione di emergenza, perfino l’idea di ammucchiare questa povera gente in riserve protette, in alternativa allo sterminio. Si cominciò a tracciare i confini delle riserve indiane verso la fine degli anni Sessanta dell’Ottocento, solo qualche anno prima che venisse istituito il primo Parco Nazionale nel Nordovest del Wyoming con il nome di Yellowstone. (…) Ci sono circa trecento di questi territori più o meno autonomi e noi attraversammo il più grande. Un’intera giornata di viaggio in un paesaggio piatto e arido, povero di informazioni, con strade diritte che sembrano fatte apposta per favorire lunghe riflessioni in silenzio, seduti sul sedile anteriore di un’automobile. Perché quella politica, l’idea di trasformare dei nomadi pagani in agricoltori timorati di Dio, sia fallita lo capisce chiunque. Il terreno che venne loro assegnato era sostanzialmente privo di qualsiasi valore. (…) Proteggere e conservare paesaggi grandiosi non è difficile. Basta avere i soldi. La varietà, invece, sia quella biologica che quella culturale, tende a svanire se rinchiusa in un’enclave. La cattiva coscienza, del resto, non è la miglior bussola.
  • Cosa distingue la vergogna per un genocidio che ha portato alla creazione delle riserve indiane e di altre enclave nei deserti, anche più vicino a noi, dalla vergogna per l’assalto dell’epoca industriale ai boschi e alle montagne? Dal pentimento tardivo per le piante e gli animali in pericolo? Proprio il rischio dell’estinzione, che oggi spinge a suddividere il paesaggio in parchi della domenica e squallore della quotidianità, indica nel mio mondo un punto che si trova al di là delle riserve naturali. Il merlo acquaiolo grigio (…) non ha bisogno di nessun parco per sopravvivere, solo di un po’ di rispetto. E questo vale per quasi tutto, non solo per gli uccelli. Per le cozze d’acqua dolce, per quel che volete.
  • (…) mi tornano in mente dei versi di Harry Martinson: “Si leva il condor al di sopra delle reti e delle trappole dell’inca / lassù dove nessuno lo disturba. Così in alto sale che la terra una pillola diventa / laggiù sospesa.” Harry era un uomo lungimirante, che riuscì in anticipo a vedere la terra come una pillola, una prospettiva che ebbe vasta diffusione solo quando ci giunsero le fotografie a colori dai viaggi sulla luna negli anni Sessanta, e che ben presto costituirono la base di tutte le metafore che tinsero l’immagine del nostro pianeta mia e di tanti altri. Prima delle fotografie di quel corpo celeste verdeazzurro nello spazio, alle preoccupazioni per le minacce al globo terrestre si poteva controbattere con le antiche leggende sulla sua smisurata grandezza. Qualche devastazione qui poteva essere compensata da aria e acqua più pulite là e da una sconfinata natura incontaminata in qualche altro posto ancora più lontano. Per questo non deve essere sottovalutata l’importanza di quelle fotografie per la presa di coscienza degli anni Settanta. Furono probabilmente più importanti di qualsiasi parola e, siccome le minacce erano grandi e la terra non era che una pillola, parecchi di noi, nella penombra dei boschi, giunsero alla conclusione che la fase coloniale nella relazione tra uomo e natura dovesse finire. Il che naturalmente era più facile da dire che da fare, ma, come tutte le utopie, allettante.
  • La devozione religiosa non è mai stata il mio forte.
  • (…) il paesaggio industriale finì per diventare così duro e squallido che l’escursionista dovette andare a cercare lontane riserve naturali, nelle vacanze – pure quelle un’eccezione, una specie di riserva. Ma anche questa forma di colonialismo è ormai in via di sparizione, o dovrebbe esserlo. Non possiamo ancora considerare tutte le riserve naturali come compromessi al ribasso determinati dalla nostra mancanza di coraggio e di fantasia, ma quel giorno verrà, credetemi.
  • La Depressione non chiuse il suo catenaccio su chi viveva in mezzo alla natura con la stessa rapidità con cui colpì gli speculatori in borsa.
  • In un paio di quadri lì riprodotti riconobbi la rupe dalla cima piatta: non poteva essere che il Corcovado, la scoscesa montagna di Rio de Janeiro dove ora si innalza come uno spaventapasseri un gigantesco Gesù.
  • Si era posta la questione di quale uccello potesse essere il miglior simbolo per la giovane repubblica degli Stati Uniti. Franklin, uno dei padri della nazione, fece notare che, in effetti, l’aquila è una vile divoratrice di cadaveri e che in generale non vanta una grande moralità, il che la rendeva poco adatta come simbolo. Lo era invece il tacchino. Lo presentò come un animale combattivo e valoroso nella difesa del suo stormo, inoltre, per natura, i tacchini si infuriavano a tal punto alla sola vista del rosso che aggredivano i soldati inglesi che, all’epoca, indossavano appunto uniformi rosse. Possiamo immaginarci che successo di propaganda sarebbe potuto diventare, per esempio, durante la guerra fredda, quando si dava la caccia alle guardie rosse ai quattro angoli del mondo. Benjamin Franklin si rendeva ben conto che il tacchino è un animale vanitoso e un po’ stupido – “vain & silly”, scriveva – ma le qualità positive erano comunque preponderanti. Era un pensiero irresistibile, soprattutto per uno come me che per molto tempo si è portato dentro un latente antiamericanismo, basato sulle immagini delle guerre, spesso ingiuste, combattute dalla superpotenza in paesi al di là dei mari – la politica dell’aquila testabianca (…).

L’arte della fuga di Fredrik Sjöberg

Cos’altro dire?

Fredrik Sjöberg – scrittore, entomologo, collezionista e giornalista – vive dal 1986 sull’isola di Runmarö, un paradiso naturale di quindici chilometri quadrati al largo di Stoccolma, dove studia le mosche, di cui è diventato uno dei maggiori esperti.

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