Non è mai facile parlare dei Katatonia. Qualunque cosa tu possa dire, sai perfettamente che finirai per scontentare qualcuno. Da un lato ci sono quelli che non hanno mai perdonato al quintetto svedese di aver mutato in corsa il proprio stile, rivendicando la mancanza di una “coerenza”, dall’altro, a fare da contraltare, troviamo tutti coloro che invece vedono nella metamorfosi sonora il fulcro della loro attrazione per la band. In mezzo ci siamo noi, che cerchiamo di restare slegati da schieramenti aprioristici, provando a goderci ogni loro album, senza pregiudizi di sorta.
Sono passati 30 anni tondi dal loro debutto del 1993 “Dance of December Souls”, e i diciottenni di allora, oggi si avviano verso i 50. Non possiamo pensare che siano le stesse persone. 30 anni sono un’eternità sia a livello mentale che musicale. Sempre che sia possibile scindere le due cose. Se, come sosteniamo da sempre, e in ogni ambito, non solo musicale, il cambiamento è non solo inevitabile, ma addirittura doveroso come percorso di crescita, non possiamo di conseguenza non vedere in una realtà come quella rappresentata dai Katatonia, il paradigma perfetto dell’evoluzione. Siamo alle prese con un album realizzato, come detto, da una band che non può più essere vista e pensata come quella di un tempo, dato che influisce in modo determinante nella stesura dei brani. Al netto di tutto questo, “Sky Void of Stars” è un album che fotografa perfettamente l’evoluzione artistica della band del duo composto da Jonas Renkse e Anders Nyström, gli unici due superstiti della formazione originaria.
Assolutamente in linea con le proposte degli ultimi anni, l’album è decisamente accattivante, e si caratterizza per una grande profondità, sia stilistica che di contenuti. Privo di qualsivoglia calo di tensione a livello emotivo, “Sky Void of Stars” ha un taglio che punta meno alla ricerca, orientandosi verso un impatto maggiormente diretto, senza perdere di incisività. Questa loro dodicesima tappa del loro cammino ce li mostra come all’apice della popolarità, padroni di un sound immediatamente riconoscibile, nonostante le differenze anche piuttosto sostanziali tra un album e l’altro. Apice che ci sentiamo di estendere anche a livello sonoro, sia come scelte che come produzione. Da quando Jonas Renkse si è autoelevato al rango di mastermind i Katatonia stanno viaggiando verso una sorta di “alleggerimento” dei brani, in favore di un aumento della fluidità degli stessi. E lo fanno, come in quest ultimo album, senza mostrare minimamente cali di tensione. Possiamo infatti dire, senza paura di smentita, che il disco mostra una sua compattezza di fondo, salda e monolitica, anche se gli undici episodi che lo compongono si distaccano l’uno dall’altro. La grande capacità dei Katatonia sta proprio qui, nell’essere riusciti a realizzare un album che si fortifica nella solidità delle sue differenze.
Malinconico e decadente, ma nell’accezione “contemporanea” del termine, in linea con i suoni attuali, che non dimenticano il passato ma ne prendono le ovvie distanze, l’album è costruito intorno alla luce intensa del buio che illumina l’etere, con la sua sensazione di ineluttabilità. Resa ancor più concreta da una forte componente che guarda al dolore dell’anima, indicato come più che mai necessario. Complesso e corposo, “Sky Void of Stars”, da un punto di vista concettuale, non modifica di molto quelle che sono le tematiche che da sempre caratterizzano gli album dei Katatonia. Cambia l’involucro, l’esteriorità, ma non la sostanza, che resta la stessa. Molto poco immediato, molto poco monotono, e per questo difficile da codificare, per tutti coloro che vogliono “tutto e subito”, l’album ha una sua indiscutibile personalità, e dimostra come, indipendentemente dalle differenze stilistiche, i Katatonia non abbiano mai fatto un album deludente. Oggi sono molto meno intensi e aggressivi di un tempo, ma non hanno minimamente perso la loro inclinazione malinconica, e la loro forza.