In attesa dei cinque quesiti referendari di inizio giugno, ecco cinque dischi che meritano di essere ascoltati, e se vi dicono che cinque caffè al giorno sono troppi rispondete che cinque è il numero massimo di giorni in cui essere costretti a lavorare in una settimana e che prendete tutti i cazzo di caffè che vi pare, tanto la salute è la vostra. Cinque proposte per :: acufeni :: XXIII
Closed Mouth – After The Tears The Fury
Yannick Rault è una delle figure più prolifiche in ambito post punk. Dal 2019 ad oggi viaggia ad una media di almeno due album all’anno, il più delle volte in modo totalmente indipendente (leggasi autoprodotto) ma sempre con un ritmo davvero frenetico e incalzante. La cosa che più sorprende è che ogni album sembra fare storia a sé, allontanandosi dal precedente, grazie ad una creatività davvero invidiabile.
Closed Mouth è la sua più recente incarnazione, un progetto che sposa una sonorità che si muove a metà tra gothic rock e cold wave, in una chiave di lettura retrò garantita da elementi analogici intorno a cui tesse i propri brani. Closed Mouth è, al tempo stesso, una realtà che non mostra interesse alcuno verso il proselitismo. Non fa promozione, non pare aver voglia di farsi conoscere troppo. Resta confinata nella propria nicchia, senza chiedere molto di più. Se, almeno in partenza, non possiamo non notare un tributo piuttosto evidente ai Cure, ritratti nel loro miglior momento (“Disintegration“), alla lunga Closed Mouth riesce a far emergere la propria identità sonora, in modo indipendente, pur restando ancorato a tematiche che si adattano alla perfezione a momenti di depressa oscurità.
Ipnotico al punto giusto, coinvolgente quando deve esserlo, e glaciale in tutti gli altri momenti che lo compongono, “After the Tears the Fury” è, alla fine di tutto, un album che emana una tristezza che non può che essere deliziosa. Un album minimalista, che punta più sulla resa globale, anziché fregiarsi di quei quattro cinque brani di punta con gli altri a fare da contorno. In estrema sintesi “After the Tears the Fury” è un album che fa della sobrietà uno dei suoi cardini fondanti, e che guarda al concreto, alle emozioni, lasciando perdere l’estetica, in un mood dominante di stampo depressivo che sonda introspettivamente tutte quelle nostre difficoltà di comunicazione che castrano i nostri rapporti con gli altri.
Hüma Utku – Dracones
Terzo album, il secondo con Editions Mego, per l’artista turca, ma da tempo di stanza a Berlino, Hüma Utku. “Dracones”, uscito all’inizio della primavera, è ad oggi, e senza ombra di dubbio, il suo album meglio riuscito,. L’avevamo apprezzata per il precedente “The Psychologist” alcuni anni fa, ma la ritroviamo adesso molto più a fuoco, consapevole del proprio potenziale, e di come sfruttarlo nel modo migliore.
A cavallo tra ambient e industrial, in un ibrido che solo lei riesce a creare attraverso l’uso di strumenti sia analogici (Buchla 100) che classici (lira e violoncello), Hüma Utku ha realizzato un album con cui riesce a rappresentare uno scenario autenticamente inquietante, in cui far confluire tutte le ansie e le paure della gravidanza. Composto appunto durante i mesi della gestazione, “Dracones”, da un punto di vista concettuale, si muove intorno a concetti quali il travaglio, il distacco, la matrescenza (insieme dei cambiamenti che avvengono nel corpo, nella psiche e nella vita di una donna durante la lunga transizione verso la maternità), ma anche la matrifagia (ovvero il consumare il corpo della madre una volta finite le cure materne da parte dei nascituri).
A metà tra misticismo e folklore, l’album ci invita a immergerci in quell’oceano oscuro da cui non è certo che faremo ritorno, per un viaggio all’interno del rumore. Un peregrinare inquietante e spettrale che riesce però, a suo modo, a risultare seducente, e quindi potenzialmente tentatore. “Dracones” cerca di fondere i suoni della tecnologia post industriale odierna con elementi classici del passato, il tutto con un gioco di dissonanze assolutamente armonioso, in un susseguirsi di dicotomie sonore, a metà tra avanguardia e rituale.
Se la gravidanza è la mutazione del corpo (ma anche dello spirito), un album come questo ne è la perfetta testimonianza, la colonna sonora ideale, fatta da un insieme di suoni distorti e melodie nascoste che si susseguono in modo assolutamente imprevedibile.
Iron Lung – Adapting // Crawling
Le realtà che oggi, 2025, continuano a portare avanti gli ideali del punk DIY, sono una (rumorosa) minoranza rispetto agli anni d’oro del movimento. Tra quelle rimaste in vita ci piace sottolineare gli Iron Lung che, a distanza di 12 anni dal loro “White Glove Test”, tornano a pubblicare un album, ovviamente con la Iron Lung Records. Volendo essere fiscali, nel 2022 era uscito un loro EP, quel “Mental Distancing” andato in stampa nell’iconica versione in 7″ flexidisc.
Ma siccome siamo tutto tranne che fiscali, fingiamo che non sia mai esistito e andiamo oltre, glorificando il ritorno della band statunitense. Gli Iron Lung sono sulla breccia da 25 anni, e da 25 anni se ne fregano di tutto e di tutti, con un approccio DIY che ricorda quello dei primissimi gruppi grindcore attivi nella seconda metà degli anni ottanta, sia per le tematiche sociopolitiche affrontate che per il sound diretto e iconoclasta che caratterizza i brani, tutti o quasi, ampiamente al di sotto dei 2 minuti di durata. Parliamo di quegli irripetibili album con cui nacque la Earache, dando il via a un fenomeno (non solo sonoro appunto) che però finì per sfociare nel metal più estremo, lasciando morire quel fermento fatto di grindcore / hardcore, che oggi, almeno in parte, rivive grazie ad album come questo “Adapting // Crawling”.
Gli Iron Lung cantano, con orgoglio e fierezza, l’oppressione sociale, e mediatica, ma anche la difficoltà di chi non riesce a restare al passo con gli altri in quella folle corsa verso il consumismo che oggi ha smesso di scandalizzarci. Il tutto riletto in un contesto politicamente orientato verso una rivolta che possa finalmente sradicare i paradigmi dell’ingiustizia sociale. Il nemico è quindi quello storico, quello che la band definisce come “un sistema corrotto da inefficienza, incompetenza e burocrazia”, quello che fa si che il duo composto da Jensen Ward e Jon Kortland, risulti più incazzato che mai. Gli Iron Lung gridano tutta la loro rabbia, senza compromessi, attraverso un album coeso, coerente e sempre a fuoco.
Il loro è un grido disperato che guarda, al tempo stesso, anche al delicato tema della sanità mentale, mettendolo in relazione agli eventi di questi ultimi cinque difficili anni, che hanno pesato in modo particolare per i più “fragili”. Le parole d’ordine per la band sono sempre le stesse. “Sappiamo cosa ci piace e cosa non ci piace”. Se il mondo sta cambiando, gli Iron Lung no.
Katarina Gryvul – Spomyn
Terzo album per Katarina Gryvul, musicista di formazione classica, ucraina di nascita, ma polacca di crescita e austriaca di adozione. Dopo quel “Thysa” (silenzio) che nel 2022 ha rappresentato la sua svolta sonora, torna oggi con “Spomyn” (ricordo), album che si mostra quasi immediatamente come molto più intenso del precedente.
L’album, nel suo tentativo di cercare di rendere reale la frammentazione dei ricordi, mostra un’artista che, attraverso un sound realmente disarticolato, pluristratificato, e distorto, riesce a fare letteralmente a pezzi i nostri padiglioni auricolari.
Quello della Gryvul è un approccio di stampo post industriale che si apre a archi e trame vocali disomogenee, in un rimando tra tradizioni e innovazioni, caratterizzato da incantesimi sonori devastanti, ma, per certi versi, a loro modo, quasi delicati. In “Spomyn” perde ogni suo significato la “forma canzone”, in virtù (e in conseguenza) di una destrutturazione (a tratti eccessiva e barocca) che nel suo essere dissonante riesce persino (e per assurdo) a risultare perfettamente armonica. La sua è una musica moderna avanguardista, che, nonostante la forza dirompente e deviante, guarda sempre e comunque alla bellezza.
Un disco per menti flessibili che sappiano adattarsi ai mutamenti, attraverso un percorso realizzato attraverso l’uso di strumenti da suoni non convenzionali, che si esaltano nel susseguirsi di esplosioni polifoniche. Se il tempo è, storicamente, il più grande nemico dei ricordi, con “Spomyn” entriamo in un’ottica caratterizzata dall’impossibilità di vedere il tempo se non come una variabile impazzita che ci porta a perdere ogni possibile connessione con la realtà.
Kuunatic – Wheels of Ömon
“Wheels of Ömon” è il secondo album per le Kuunatic, trio psichedelico giapponese che fa dello stretto rapporto con le tradizioni sonore del sol levante uno dei suoi punti di forza. L’album, che esce per l’europea Glitterbeat, mostra una band che cerca di coniugare, e di contestualizzare ai giorni nostri, attraverso una trasposizione e una rivisitazione in chiave krautrock e progressive, le musiche di corte del periodo imperiale, ma anche la musica tradizionale e quella che accompagnava i rituali religiosi.
L’album è la seconda parte di una una mitologica avventura sull’immaginario pianeta Kuurandia, iniziata nel 2021 con il loro debutto “Gate of Klüna”.
Un disco che ci porta nel cosmo, attraverso un viaggio oscuro, caratterizzato da un tribalismo esasperatamente portato all’eccesso, aperto a una pluralità di soluzioni figlie di un caleidoscopio di suoni (e di strumenti). Un album a tratti maestoso, perfetto nel tentare di rappresentare il suo lato mistico/mitologico/teatrale grazie a un’armonia vocale intensa e coinvolgente, che domina e avvolge, come un mantra infinito. “Wheels of Ömon” è quindi inquadrabile come un album straniante, azzardato, che riesce però, nonostante le difficoltà di decifrarlo nel breve periodo, ad andare a segno, unendo presente e passato in un allucinatorio mix che potremmo provare a definire come psichedelia tribale. Una sorta di folk alieno giapponese che guarda a un mondo distopico, e fantastico, che ha il potere di allontanarci da quello in cui viviamo.
È chiaro, soprattutto con un disco di questa portata, che sia del tutto privo di senso il tentativo di andare a cercare dei termini di paragone, perché, oltre a non servire a nulla nel momento in cui pensiamo di provare a spiegare le Kuunatic, farlo sarebbe un tentativo a vuoto, dato che in giro non ci sono altre realtà sovrapponibili. Non a caso la Glitterbeat in fase di presentazione lo ha detto molto chiaramente: “Wheels of Ömon è diverso da qualsiasi cosa abbiate mai sentito prima”.