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Recensione : Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati

Pubblicato nel 1940, “Il deserto dei Tartari” narra le vicende del tenente Giovanni Drogo, inviato a prestare servizio nell’isolata e inutile Fortezza Bastiani, a sorvegliare un deserto da cui non arriva mai alcun nemico.

“Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati

Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati

Pubblicato nel 1940, “Il deserto dei Tartari” narra le vicende del tenente Giovanni Drogo, inviato a prestare servizio nell’isolata e inutile Fortezza Bastiani, a sorvegliare un deserto da cui non arriva mai alcun nemico. Consumerà la sua esistenza aspettando la guerra, l’azione, il giorno in cui potrà farsi valere e rimarrà invischiato in questa vana attesa anche quando avrà la possibilità di andarsene.

 

Potrete leggere passaggi come questi:

 

  • Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione. (…) Appena arrivato, Drogo si presentò al maggiore Matti, aiutante maggiore in prima. Il tenente di picchetto, un giovane disinvolto e cordiale, di nome Carlo Morel, lo accompagnò attraverso il cuore della Fortezza. Dall’androne di ingresso – donde si intravedeva un grande cortile deserto – i due si avviarono per un largo corridoio, di cui non si riusciva a vedere la fine. Il soffitto si perdeva nella penombra, ogni tanto una piccola striscia di luce entrava da sottili finestrette. Solo al piano di sopra incontrarono un soldato che portava un fascio di carte. I muri nudi ed umidi, il silenzio, lo squallore delle luci: tutti là dentro parevano essersi dimenticati che in qualche parte del mondo esistevano fiori, donne ridenti, case allegre e ospitali. Tutto là dentro era una rinuncia, ma per chi, per quale misterioso bene? Ora essi procedevano al terzo piano, lungo un corridoio esattamente identico al primo.
  • Molte volte egli era stato solo: in alcuni casi anche da bambino, smarrito per la campagna, altre volte nella città notturna, nelle vie abitate dai delitti, e persino la notte prima, che aveva dormito per strada. Ma adesso era una cosa ben diversa, adesso ch’era finita l’eccitazione del viaggio, e i suoi nuovi colleghi erano già a dormire, e lui sedeva nella sua camera, alla luce della lampada, sul bordo del letto, triste e sperduto. Adesso si capiva sul serio che cosa fosse solitudine (una camera non brutta, tutta tappezzata di legno, con un grande letto, un tavolo, un incomodo divano, un armadio). Tutti erano stati gentili con lui, alla mensa avevano aperto una bottiglia in suo onore, ma adesso di lui se ne infischiavano, l’avevano già completamente dimenticato (…). Nessuno per la durata dell’intera notte sarebbe entrato a salutarlo; nessuno in tutta la Fortezza pensava a lui e non solo nella Fortezza, probabilmente anche in tutto il mondo non c’era un’anima che pensasse a Drogo; ciascuno ha le proprie occupazioni, ciascuno basta appena a se stesso, persino la mamma, poteva darsi, persino lei in questo momento aveva in mente altre cose, di figlioli non c’era soltanto lui (…).
  • Come al solito entrava al tramonto nell’animo di Drogo una specie di poetica animazione. Era l’ora delle speranze. E lui ritornava a meditare le eroiche fantasie tante volte costruite nei lunghi turni di guardia e ogni giorno perfezionate con nuovi particolari. In genere pensava a una disperata battaglia impegnata da lui, con pochi uomini, contro innumerevoli forze nemiche; come se quella notte la Ridotta Nuova fosse stata assediata da migliaia di Tartari. Per giorni e giorni lui resisteva, quasi tutti i compagni erano morti o feriti; un proiettile aveva colpito anche lui, una ferita grave ma non tanto, che gli permetteva di sostenere ancora il comando. (…) Era l’ora delle speranze e lui meditava le eroiche storie che probabilmente non si sarebbero verificate mai, ma che pure servivano a incoraggiare la vita.
  • (…) ha aspettato già troppo, e a una certa età sperare costa grande fatica, non si ritrova più la fede di quando si aveva venti anni. Troppo tempo egli ha aspettato invano, i suoi occhi hanno letto troppi ordini del giorno, per troppe mattine i suoi occhi hanno visto quella maledetta pianura sempre deserta. E adesso che sono apparsi gli stranieri, ha la netta impressione che debba esserci uno sbaglio (troppo bello altrimenti) ci deve proprio essere sotto un madornale sbaglio.
  • La mosca volava su e giù per la sala, la bandiera sul tetto del forte si era afflosciata, il colonnello parlava di disciplina e di regolamenti, nella pianura del nord avanzavano schiere di armati, non più nemici avidi di battaglia ma soldati innocui come loro, non lanciati a sterminio bensì a una specie di operazione catastale, i loro fucili erano scarichi, le daghe senza filo. Giù per la pianura del nord dilaga quella inoffensiva parvenza di armata e nella Fortezza tutto ristagna di nuovo nel ritmo dei soliti giorni.
  • Quattro anni erano passati da allora, una rispettabile frazione di vita, e niente, assolutamente niente era successo (…). I giorni erano corsi via uno dopo l’altro; soldati, che potevano essere nemici, erano comparsi un mattino ai bordi della pianura straniera, poi si erano ritirati dopo innocue operazioni confinarie. La pace regnava sul mondo, le sentinelle non davano l’allarme, nulla lasciava presagire che l’esistenza sarebbe potuta cambiare. Come negli anni passati, con le medesime formalità, ora avanzava l’inverno e i soffi della tramontana producevano contro le baionette un debole fischio.
  • (…) per quanto scrutasse la pianura col migliore dei cannocchiali d’ordinanza, Giovanni non riusciva ancora a scorgere alcun segno di attività umana; neanche il lume di notte e sì che i fuochi si vedono facilmente anche a smisurate distanze. A poco a poco la fiducia si affievoliva. Difficile è credere in una cosa quando si è soli, e non se ne può parlare con alcuno. Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono sempre lontani; che se uno soffre il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita.

 

Disse Buzzati: “Lo spunto del romanzo nacque dalla monotona routine redazionale notturna che facevo a quei tempi. Molto spesso avevo l’idea che quel tran-tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. È un sentimento comune, io penso, alla maggioranza degli uomini, soprattutto se incasellati nell’esistenza ad orario nelle città. La trasposizione di questa idea in un mondo militare fantastico è stata per me quasi istintiva”.

Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati

Marco Sommariva

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