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Recensione : Vita agra di un anarchico di Pino Corrias

In queste pagine, Corrias ricostruisce il viaggio di Luciano Bianciardi da Grosseto a Milano, dall’Italia del Dopoguerra a quella del Miracolo economico, un percorso comune a un’intera generazione che provò a immaginare un Paese diverso.

Vita agra di un anarchico di Pino Corrias, edito da Baldini Castoldi Dalai

Vita agra di un anarchico di Pino Corrias

In queste pagine, Corrias ricostruisce il viaggio di Luciano Bianciardi da Grosseto a Milano, dall’Italia del Dopoguerra a quella del Miracolo economico, un percorso comune a un’intera generazione che provò a immaginare un Paese diverso. Di questa libro, Goffredo Fofi ha detto: “E’ una biografia esemplare perché unisce agilità giornalistica a competenza, passione e capacità narrativa”.

 

Potrete leggere passaggi come questi:

 

  • Ha solo ventitré anni (…). Si avvicina al partito d’azione perché lo respira nell’aria della Normale. Militanti rigorosi, intellettuali preparati, i primi a capire che cattolicesimo e marxismo si sarebbero spartiti il cuore e le aspirazioni di questa Italia nata sulle macerie della guerra. È forse la sola volta che Bianciardi entra volontariamente in una élite, certo perché ne condivide l’insofferenza agli integralismi dei due partiti di massa, la democrazia cristiana e il partito comunista, ma anche perché ne intuisce la fine precoce, il destino di minoranza inascoltata.
  • Un assaggio di quello che erano capaci di fare, questi militanti comunisti di miniera lo danno all’Italia intera nelle giornate che seguono l’attentato a Togliatti, il 15 e il 16 luglio del 1948, quando sembrava che stesse per scoppiare la rivoluzione. Mentre a Milano, Genova, Torino, Venezia gli operai delle grandi fabbriche occupano le piazze, issano bandiere rosse e barricate, nei paesi minerari della Maremma le manifestazioni diventano rivolta armata. C’è un ex senatore del pci, Torquato Fusi, di Grosseto, per dieci anni responsabile della zona mineraria per il partito, che racconta di quei giorni: “C’erano armi dappertutto. Nel ’45, quando era stata ordinata la consegna dei mitra partigiani, non si consegnarono affatto. Pistole, mitragliatrici e fucili vennero seppelliti, nascosti, murati, ma non consegnati. A tantissimi militanti quelle pallottole contro Togliatti sembrarono il segnale che era finito il tempo della mediazione. Si doveva combattere e prendere il potere. Si doveva fare la rivoluzione. E allora, per prima cosa, si andò a recuperare le armi nascoste tre anni prima”. Nei paesi intorno al Monte Amiata, (…), i rivoltosi attaccano le piccole caserme dei carabinieri, ingaggiano conflitti a fuoco, occupano i palazzi comunali. Arrivano a proclamare “governi provvisori” e persino “repubbliche dei soviet”. Incendi e battaglie dappertutto, compreso a Orbetello e Grosseto, dove erano stati costituiti i Comitati di emergenza per la salute pubblica. Quando però Togliatti (dal letto d’ospedale), i maggiori leader del pci e i dirigenti della Cgil lanciano l’appello per fermare “qualsiasi forma d’ostilità”, la fiammata si spegne con la stessa rapidità con cui si è accesa e propagata. Il bilancio è pesantissimo: trenta morti, ottocento feriti. La polizia di Scelba riconquista il controllo dei paesi maremmani, arresta settemila persone. Non tutti i militanti si arrendono. In tremila si rifugiano nei boschi, tra gli acquitrini, sui monti. Gruppi di minatori si asserragliano dentro alle miniere della Montecatini. Ci vorranno giorni e giorni di rastrellamenti per domare la rivolta. I minatori usciranno dai pozzi con le catene ai polsi, guardati a vista da plotoni di carabinieri. Fusi: “Poi ci furono i processi con centinaia di militanti dietro alle sbarre, con i paesi occupati militarmente da polizia e carabinieri. Furono processi di massa, con condanne durissime”.
  • Piuttosto sventatamente partii per Milano, e mi bastò un mese per capire in che guai mi ero messo. Tutti i difetti dell’industria moderna e tutti i difetti del partito comunista si mischiavano a formare un casino credo unico al mondo. (Lettera di Bianciardi a un amico, febbraio 1964)
  • Nell’immediato dopoguerra quella tela (Guernica) di Picasso, il suo messaggio di orrore per tutte le guerre, sembrava fornire la risposta a tutti gli interrogativi sul ruolo dell’arte: era insieme libera nella forma, straordinaria nell’effetto, impegnata nel contenuto. Quella era la strada, dicevano i pittori: dopo i massacri, la liberazione, la repubblica, niente sarebbe potuto ricominciare come prima (…).
  • (…) venendo a Milano cosa ha trovato? Un pci fortemente minoritario, senza quello spirito aggressivo che poteva avere a Grosseto. Il funzionario comunista milanese, per lui era un ragioniere, e anche l’operaio della grande fabbrica era troppo pratico, freddo, razionale. Non gli piaceva. Lui era legato ai minatori, ai braccianti, a quel popolo tendenzialmente anarchico – comunista perché anarchico – dove i rapporti erano molto caldi, sanguigni. Lui cercava l’abbraccio, la bevuta, la mangiata.
  • Voltati in giro e dimmi se vedi altro che gente che tira al suo e se ne frega del prossimo. Ognuno si fa gli affari suoi e l’amore del prossimo è roba che trovi, ma sempre meno se ci badi bene, scritta sui libri. Così è per gli scrittori: fanno il loro mestiere, cercano di salire, e del resto se ne fregano. Se hanno simpatia, compassione, tenerezza, quello che vuoi, per un personaggio, l’hanno appunto per il personaggio, non per la persona. Bube è in galera, il Bube vero, non so se lo sai. Cassola ha cercato di farlo tirar fuori, proprio sfruttando il successo del libro. Gli altri letterati amici suoi gli han detto di lasciar perdere, e di scrivere un altro libro. (Lettera di Bianciardi a un amico, agosto 1961)
  • Di politica parlava ogni tanto, era un battitore libero, un individualista, detestava il burocrate comunista, detestava lo spirito gerarchico del pci, il timore ideologico, il conformismo.
  • (…) a lui della proprietà privata non gliene fregava nulla e neppure dei soldi. In questo era veramente anarchico: tutto quello che non gli era indispensabile, lo considerava superfluo, non lo riguardava.
  • L’unica cosa che in quei mesi nerissimi (del 1969) lo aveva appassionato, fu la morte di Pinelli. Mandò un telegramma di complimenti a Camilla Cederna dopo aver letto Una finestra sulla strage. Si sentiva coinvolto perché Pinelli era un anarchico.

 

Cos’altro aggiungere? Nel 1971, sul Guerin Sportivo, Luciano Bianciardi scriveva così: “Io non sarò mai capo della polizia. Se lo fossi, farei arrestare il capo della polizia”.

 

Marco Sommariva

marco.sommariva1@tin.it

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