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Recensione : Trip Hill – Ain’t Trip Ceremony

Fabrizio Cecchi viene da lontano, il suo background lo dimostra, ma guarda altrettanto distante e ciò è sintomatico della sua inesauribile voglia di sperimentare, di non porre limiti ad una creatività fertile mossa da una passione smisurata.

Fabrizio Cecchi viene da lontano, il suo background lo dimostra, ma guarda altrettanto distante e ciò è sintomatico della sua inesauribile voglia di sperimentare, di non porre limiti ad una creatività fertile mossa da una passione smisurata. Il musicista fiorentino, dimostrando un eclettismo che risiede in pochi strumentisti, si è “reinventato” one man band psychedelico ( territorio nel quale si trova indubbiamente a proprio agio ) ed in questa veste fa uscire questo nuovo album che non può che allietare, a tratti stupire, gli amanti dei suoni più dopati e sognanti.

La scaletta viene aperta del tribalismo alla Spacemen Three di Dropside seguito dai suoni space di Automatic, dall’ ossesività di Space Mind e dal ragga di Pan che ricorda la versione acustica degli Steepes accarezzando i sensi dell’ascoltatore. Come ogni amante di un certo tipo di sonorità il nostro non può che guardare con ammirazione sconfinante nell’adorazione ai Pink Floyd barrettiani e li omaggia in almeno tre brani Trai Tim Than Yeu, Tame Ukhan, What Happened to Will.

Ma il top il disco lo raggiunge con il sesto pezzo Ralph’s Heart Attack, una canzone anfetaminica nella quale si alzano i giri del motore e la voce accarezzante conduce l’ascoltatore in un vortice nel quale è dolce naufragare. Il sigillo di qualità lo mette l’etichetta per la quale il disco esce la danese Bad Afro Records fulgida realtà dedita alla promozione di suoni che, alla faccia di troppi che ne hanno prematuramente decretato la fine, non moriranno mai.

Le eccellenze italiane vanno sostenute e supportate, in questo caso caso impossibili se non delittuoso non farlo.

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