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Recensione : Strange Colours – Future’s Almost Over

Strange Colours – Future’s Almost Over: "In un eterno presente che capire non sai, l'ultima volta non arriva mai". Citando un famoso v...

Strange Colours – Future’s Almost Over

In un eterno presente che capire non sai, l’ultima volta non arriva mai“. Citando un famoso verso di una canzone della buonanima di Giovanni Lindo Ferretti (sì, l’ex frontman dei CCCP Fedeli Alla Linea; che in realtà non è morto ma, da una ventina di anni a questa parte, è stato sostituito da una controfigura, un alter ego grottesco e raccapricciante) questo è, più o meno, il senso del titolo di questo debut album degli Strange Colours, lo slogan “No Future” del punk aggiornato alla paranoia dei tempi moderni, in questo eterno e immutabile Oggi, Qui-e-ora, in cui la razza umana ha perso il lume della ragione e il mondo sta correndo velocemente e inesorabilmente verso il baratro della follia e dell’autodistruzione naturale, fisica, materiale, mentale e psicologica, a causa dell’avidità dell’essere umano che sta uccidendo un intero pianeta, provocandone il collasso attraverso l’inquinamento ambientale, le pandemie sanitarie e la sete implacabile di potere e di denaro che acceca la stragrande maggioranza della fauna a due zampe, dotata del dono della parola e soprattutto di intelletto, strumento prezioso che ormai ha smesso di far funzionare da anni.

Le dieci tracce che compongono “Future’s Almost Over” sembrano essere la colonna sonora perfetta per descrivere questa apocalisse materiale e morale in corso. Basta far partire l’opening track “Get in line” per venire travolti da un’ondata di calore (in questo caso il “riscaldamento globale” generato dalle libbre di carne che percuotono gli strumenti è benefico per i nostri timpani) e furia garage-punk che ci invita ad alzarci in piedi e lasciarci trasportare dal flusso e a raccogliere le vibrazioni emanate da questo nuovo gruppo di Toronto, capeggiato dal canadese Andrew Moszynski, ex chitarrista e leader dei Deadly Snakes, che ha reclutato altri tre suoi connazionali per questo nuovo progetto: Ryan Rothwell (al basso, chitarra e voce) e Chris McCann (alla seconda chitarra) dei Pow Wows e Jay Lemak all’organo. Ed è proprio il Fender Rhodes di Lemak a caratterizzare la seconda traccia dell’Lp, “The Phantom“, un brano dal mood malinconico (a voler prendere alla lettera il titolo della song in questione, chi è che, in fondo, non ha scheletri nell’armadio?) mentre nella successiva “Patrol” si procede veloci e feroci, e la rapidità di questa valanga fuzz-noise sembra proprio volere rimarcare uno dei difetti del mondo odierno, cioè quello di andare sempre di fretta, troppo di fretta, e la gente non trova più il tempo per fermarsi a pensare, a meditare, persa com’è tra i suoi mille impegni, a ripetere come robot sempre gli stessi gesti e gli stessi rituali ogni giorno. “Loudmouth” ha un passo più cadenzato e psichedelico rispetto alle tracks precedenti, ma ugualmente efficace e straniante, e un titolo del genere non può non far pensare a quanta gente e sedicenti “guru” tuttologi, soprattutto di questi tempi, parlano e straparlano a vanvera, arrivando in qualunque parte del globo (grazie anche al web e alla tecnologia odierna) risultando inutili e dannosi. “The Setting Sun” profuma piacevolmente di fine anni Ottanta-primi anni Novanta, precisamente odoranti del melting pot tra hard rock, punk e psichedelia (che in tanti hanno in seguito etichettato come “grunge“) operato dagli Screaming Trees. Ma già nella successiva “Sea of Tranqs” l’organo torna a fare capolino in un garage punk fuzzato che affonda le sue radici nei quattro decenni d’oro del rock ‘n’ roll, ossia dai primi Sixties delle “Nuggets” alla bassa fedeltà dei primi anni del nuovo millennio. Questo disco è un saliscendi continuo di emozioni e stati d’animo, e dalla frenesia della società d’oggi si passa a “Valley of  No Return“, pezzo di psichedelia sognante che quasi esemplifica, in musica, il desiderio di volersi isolare e alienare dallo schifo dell’attualità di questi anni, scappare via dalle convenzioni della società borghese, in cui contano solo l’apparenza e i soldi, per rifugiarsi magari sul cucuzzolo di una montagna, a vivere da novelli eremiti, riscoprirsi in armonia con la natura (quella non ancora completamente deturpata dalla mano dell’uomo) e agli animali, oppure mollare tutto e andare a vivere nel deserto, a riscoprire la lentezza, la meditazione, a dare il giusto peso al tempo e all’esistenza dell’individuo, altrimenti intossicato e fagocitato da mille distrazioni e malattie nelle città e grandi metropoli. Evadere dalla squallida realtà che ci circonda e sognare un mondo nuovo (“Another new world“, appunto) in cui venga abolito, in primis, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e il capitalismo selvaggio che, tra industria della guerra e conflitti di interesse, sta prosciugando le risorse del nostro pianeta. Un mondo in cui non si smarrisca la meraviglia, la tenerezza e il senso del sogno (che traspare dal soffuso garage-blues di “Black and Blue“) ma bisogna essere se stessi e dire sempre ciò che si pensa (“Say what you want to say“) senza compromessi.

Come ci tiene a sottolineare la label Slovenly Recordings (che a breve dovrebbe pubblicare il disco anche in formato vinilico) “Future’s Almost Over” contiene dieci canzoni (di “Solid, Soulful and Swirling Stomp“) suonate senza nostalgie rétro, musica nuova presentata alla vecchia maniera. Quella giusta. La parola “futuro” fa sempre più paura, è un’incognita perenne, ma nonostante tutto, si prova ancora a rendere il mondo un posto migliore grazie all’arte e alla musica, anche con un Lp come questo, che non ci si stanca mai di riascoltare e ti fa sempre venire su la voglia di farlo risuonare dall’inizio.

TRACKLIST

1. Get In Line
2. The Phantom
3. Patrol
4. Loudmouth
5. The Setting Sun
6. Sea Of Tranqs
7. Valley Of No Return
8. Another New World
9. Black & Blue
10. Say What You Want To Say

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