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Recensione : Lucinda Williams – Good Souls Better Angels

Lucinda Williams Good Souls Better Angels: Lucinda Williams si mette ancora in gioco oltraggiando la passiva America con le sue intelligenti armi.

Recensire una delle regine dell’alt country, vista la mole, soprattutto qualitativa, di fatiche musicali elargiteci nel corso degli anni, è opera non semplice. La crooner, scoperta con colpevole ritardo e fortunatamente grazie ad una esibizione live – quella di Villa Ada (RM) nell’estate 2016, in occasione dell’uscita del doppio “The Ghosts of Highway 20” -, tramite questo 14° sigillo, intitolato “Good Souls Better Angels”, sfodera caratteristiche raw che definirei essenzialmente e robustamente rock. Un album ribelle che scredita abusi politici, economici e sociali, richiamando a volte i vocalizzi di Patti Smith e Joan Jett, entro cui slitta un sounding fuzz-guitar prostooges, sprigionando innovative malie prettamente Williams!

Classe 1953, la nostra è nata a Lake Charles, in Louisiana, figlia di due poeti. A causa di motivi professionali del padre, era professore universitario, la famiglia girò numerose città degli States e permase anche in Messico e in Cile. L’attività letteraria e la sua formazione musicale sono state dunque influenzate dall’impronta familiare, vedi i testi e l’ascolto di Joan Baez e di Hank Williams., ma la scintilla decisiva nel farle intraprendere la carriera di songwriter fu l’ascolto di “Highway 61 Revisited”, oltre a quelli universitari rock del momento e ai cantautori impegnati, tipo Leonard Cohen e Joni Mitchell.

Dotata di un carattere ribelle e decisamente critico, interessata da importanti cambi di città in relazione alla sua attività, la lunga e ricca carriera di Lucinda può essere divisa in varie parti. La prima, riguarda la pubblicazione dei primi due album, tra il 1979 e il 1980, fase in cui l’artista doveva ancora affermarsi ai livelli massimi, attestandosi valorosa del genere traditional e folk-blues.

Del 1988 è il terzo album omonimo (per la punk label Rough Trade!!!) che la impone all’attenzione generale grazie all’originalità immessa in questo album. La bagarre con le case discografiche comincia a farsi sentire in questo periodo e a delinearsi più marcata in seguito, questo perché il suo lavoro doveva risultare personale sotto ogni punto di vista e non viziato da incongruenze e colpi di testa dettati da discografici senza scrupoli.

Così anche il quarto album vedrà luce tardiva – nel 1992 – e per gli stessi problemi, comprese varie beghe commerciali tra etichette, viene pure ritardata l’uscita di uno dei suoi migliori lavori, “Car Wheels On A Gravel Road”, fissandola in data 1998.

Benché sia diventata, per contrasto alla gestione di terzi, una maniaca della perfezione del lavoro in studio, evidentemente teso ad una resa autentica che fosse in linea con i contenuti espressi a cavallo dei principali temi lirici trattati – life, death, love and sex -, il pubblico, più che la critica, è sempre rimasto entusiasta dei suoi dischi, ciò permettendole l’apertura verso nuove strade sulle quali scandagliare al meglio la propria vena intimista e personale.

Si registrano in questi anni cover dei suoi brani da parte di tanti artisti famosi che contribuiranno ad aumentarne il successo. Tra i vari: Patty Loveless, Mary Chapin Carpenter, Emmylou Harris e Tom Petty.

Una serie di album pubblicati dopo “Car Wheels on a Gravel Road” del 1998, sottolineano la grandezza stilistica ed evolutiva della Williams; la crescita personale la rende non solo un’artista di caratura notevolissima, ma la presenta anche in veste di competente in materia tecnica e discografica, il tutto confermato mirando al personale palmares che va gonfiandosi dei tanti premi ricevuti. Inoltre il prossimo passaggio è alla Lost Highway, sotto la cui ala registra gli ottimi successivi sei album.

Con “Down Where the Spirit Meets the Bone” del 2014 , la Williams ha ulteriormente affermato la sua indipendenza creando la propria etichetta, la Highway 20, e lanciandola con un doppio album che sfiora il capolavoro, roba che non si sentiva dai tempi di “Essence” (2001), evidenziandone in questo i motivi musicali, la poetica, il suono, nonché lo sguardo attento che filtra oltre i classici temi incorporati nel suo songbook.

Solcando la scia della conquistata via indipendentista, Lucinda Williams ha pubblicato nel 2016 un altro doppio dal titolo “The Ghosts of Highway 20”, mentre il 2017 è stato l’anno in cui è ricorso il 25° anniversario di “Sweet Old World”, omaggiato con l’uscita di “This Sweet Old World”: in esso sono registrate versioni nuove e talvolta rivisitazioni delle canzoni dell’album targato 1992.
Sempre su Highway 20, ecco presentato l’ultimo “Good Souls Better Angels”, che vede il ritorno dell’ingegnere e produttore presente in “Car Wheels On A Gravel Road”, Ray Kennedy, qui rivolto alla ricerca di un suono scarno, tali sono le direttive della cantante, che vada a braccetto perfettamente (e ci va) con la super band di Lucinda: Stuart Mathis alla chitarra, David Sutton al basso, Butch Norton alla batteria.

Circa l’intima, genuina e sofferta attitudine volta alla narrazione del circostante, credo non potesse mancare una track ‘dedicata’ alla star più spregevole di questi tempi, vale a dire il tristemente famoso The Old Big Pa’ Donald Trump, introdotta tramite la feroce You Can’t Rule Me, prendendo le dovute distanze da quel losco figuro patentato anche in Man Without Soul (un glorioso inciso tra gli Stones di Sticky Fingers e ovviamente Mr. Dylan, acidificati dalla sei corde) e in Bone of Contention: Who’s your mother? Where did you come from?/ Who’s your father?/ Where were you born? You’re not my brother/ You’re not my kin, you’re not my sister/ You’re not my fan, you’re not my master/ I’m not your slave, evil bastard/ Go back to your grave.

Chiarificando una volta per tutte da che parte sta la Williams e con che condivisibile acrimonia!

Big Black Train è una preghiera che viene dal profondo di un’anima che non ci sta a salire su quel treno notturno carico di presagi oscuri. La lancinante sordina regala tutta l’ampiezza della poetica irriducibile di Lucinda e sono brividi distillati di commozione.

Wakin’ Up mostra una disincantata lucida song, esito di un’anima indolente che rifiuta di addentrarsi nei meandri di un tormentato incubo: il registro vocale viscerale e palpitante mantiene i nervi concitati e desti.

Pray The Devil Back To Hell, intagliata dalla apertura blues in stoppato, ci sommerge nel notevole timbro rock, sfilando sinuosità sexy al fiddler; la Williams è regista ed interprete della scena, recitando un pezzo da 90 e affidando il magnifico contorno ai gregari (brilla la grande elettrica), ove si intercettano varie gustosità che si imprimono vagheggiando echi di altri artisti d’eccezione.

I sei minuti di Shadows & Doubts sono necessari musicalmente a distendere i suoni, il country entra dalla finestra dilatando i panorami e Lucinda tira le somme lungo un periodo che la confina in zone ‘precrepuscolari’ dell’anima.
In When The Way Gets Dark la voce drappeggia egregiamente i dubbi della precedente song facendoli evaporare da Madre Terra, offrendo una interpretazione magistrale di sé stessa.

Seguirà un magnifico trittico (Bone of Contention; Down Past the Bottom; Big Rotator) di selvagge, indomabili tracks; un pacchetto che descrive al meglio questo album per quello che possiede di fondo, cioè una dichiarazione ruvida e cocciuta, caparbia, dura e intransigente, intenta a contendersi il banco nel gioco della vita, suonando e puntando le sue armi preziose sottostando ai migliori auspici derivanti dalla incomparabile carriera, coperta indiscutibilmente da stile, inalterata classe e forte umanizzazione.

Ci si aspetta sempre il meglio da Lucinda e vedrai che anche questo sforzo è all’altezza dell’artista.

Track List
1. You Can’t Rule Me
2. Bad News Blues
3. Man Without a Soul
4. Big Black Train
5. Wakin’ Up
6. Pray the Devil Back to Hell
7. Shadows & Doubts
8. When the Way Gets Dark
9. Bone of Contention
10. Down Past the Bottom
11. Big Rotator
12. Good Souls

Etichetta Label: Highway 20; Thirty Tigers

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