“L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico” di Franco Basaglia, Franca Ongaro Basaglia (Baldini Castoldi)
Lo scorso anno si sono celebrati i cento anni dalla nascita di Franco Basaglia. Per l’occasione sono stati ristampati tutti i suoi libri, compreso questo, fondamentale, “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”, scritto insieme alla moglie Franca Ongaro nel 1968. Rileggerlo oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, non fa altro che confermare l’importanza di Basaglia come medico, ma anche come umanista e antropologo.
Appare infatti chiarissimo, ancora una volta, il suo ruolo in quella che possiamo considerare come una delle maggiori conquiste in fatto di civiltà. La sua idea di rimettere l’uomo (inteso come essere umano dotato di diritti) al centro di ogni ragionamento, pare non aver ancora esaurito il proprio potere rivoluzionario nonostante il passare degli anni.
Prima del suo avvento, alla guida degli ospedali psichiatrici di Gorizia e di Trieste, il malato di mente era disumanizzato, chiuso in un contesto opprimente, in cui regnava la repressione e la violenza. Con Basaglia cambia il modo di pensare, e si cerca di portare l’uomo, ancor prima che il malato, al di fuori delle mura dei manicomi, in attesa di completare la sua opera di “distruzione dell’ospedale psichiatrico”.
Che Basaglia non fosse un medico come tanti è ormai acclarato. È la storia recente del nostro paese a dirlo. Noi lo stiamo solamente sottolineando. Filosofo, ma anche politico, Basaglia ha fatto della Comunità Terapeutica uno dei cardini del proprio pensiero, e del proprio agire, forte dell’idea che i pazienti psichiatrici potessero, anzi dovessero prendere parte alla gestione della struttura di cui erano ospiti, e non rinchiusi. Dai documenti dell’epoca emerge un quadro in cui il malato di mente era visto come un problema, e come un pericolo (più per gli altri che per se stesso), e che, quindi, veniva rinchiuso in manicomio per nasconderlo agli occhi della popolazione, il tutto in un atteggiamento classista, che permetteva ai benestanti di curarsi in apposite cliniche specializzate, mentre alla maggioranza della popolazione negava ogni beneficio, marchiandola a fuoco con lo stigma sociale conseguente all’internamento. Il manicomio era stato pensato quindi come un luogo in cui il malato di mente potesse essere reso inoffensivo, smettendo di essere un pericolo per la società, ma alla lunga ha finito per diventare un luogo in cui si completava il suo annientamento, si perdeva la soggettività e si diventava oggetti non dotati di pensiero.
Basaglia punta a liberare l’uomo, aprendo le porte dei manicomi con un gesto davvero rivoluzionario, ma, per liberare l’uomo, occorre prima liberare il pensiero, trasformando i limiti in nuove frontiere della conoscenza. E proprio per questo indice riunioni quotidiane, all’interno di tutti i reparti degli ospedali, in modo che si possa formare una coscienza critica. Ma non solo. Nelle assemblee si discute anche di tutte quelle dinamiche che prima venivano regolate da normative repressive, cercando di andare alla fonte del problema, coinvolgendo anche i protagonisti degli episodi in questione, in modo da responsabilizzarli, e portarli a ragionare su cause e effetti dei loro comportamenti. I problemi si affrontano insieme, non ci si limita a reprimere o a punire. Questo è il postulato fondante della rivoluzione basagliana.
È in questo contesto che si inseriscono gli estratti dalle assemblee (riportati fedelmente nel testo) a cui partecipano non solo tutti gli operatori sanitari, ma anche tutti coloro tra gli internati sentono la necessità di dover dire la loro. Quelli cioè che pensano di riuscire a riprendersi quella vita che la società civile ha negato loro nel momento in cui li ha rinchiusi in manicomio. L’obiettivo era dunque quello di ridare voce, spazio e credibilità a tutti, nessuno escluso.
Le riunioni avevano un duplice significato. Quello di offrire al malato di mente un’alternativa alla routine del reparto, alienante in quanto ripetitiva e univoca, e quella di creare un terreno di confronto e di verifica reciproca. Delle due ovviamente la seconda è quella più importante, non fosse altro che per il fatto che il malato accettando il confronto, sia coi suoi pari che con quelli che ha sempre considerato e individuato come le istituzioni, mostra di voler e di saper fare un passo avanti in vista di un reinserimento sociale.
La riunione, intesa come uniformità di ruoli e di posizioni, era il tentativo per porre le basi per un nuovo istituto psichiatrico ma anche per una società nuova, inclusiva, che andasse a creare un’azione terapeutica reciproca, bidirezionale. La comunità diventa terapeutica nel momento in cui si eliminano le prevaricazioni, attraverso una discussione costruttiva a cui tutti possono e devono partecipare. Il punto di partenza è il superamento del ruolo di malato e dello stigma sociale. Occorre superare la definizione della patologia che finisce per inquadrare la persona con l’insieme dei sintomi che presenta. Il malato di mente deve acquisire una propria consapevolezza che lo porti a compiere scelte autonome e responsabili. Il reparto non è più visto come un’imposizione, ma come un luogo proprio, da curare. Un qualcosa che appartiene ai pazienti.
È proprio qui che l’istituzione (manicomiale) diventa negata, e dà vita al titolo del libro. Si nega infatti l’istituzione nel momento in cui, all’interno delle strutture manicomiali, chi ha ruoli dirigenziali si oppone alla gerarchia istituzionale e decisionale, e ribalta la prospettiva, mettendo tutti i partecipanti al processo riabilitativo sullo stesso piano, andando a invertire la piramide del potere. L’istituzione non nega solo il proprio ruolo “dominante”, ma anche di guardare l’uomo come malato deumanizzato, privato dei propri diritti, della propria dignità, condannato alla morte civile. Occorre, secondo Basaglia e i suoi, combattere la scienza nel momento in cui impone una classificazione tra gli individui, con l’esclusione di quelli “malati”. Su cui pesa la diagnosi di ingresso, che non li abbandonerà mai.
Si tratta di dare il via a un percorso tutt’altro che semplice, ma che, alla lunga riuscirà a portare i risultati sperati. Nel 1978 infatti i manicomi verranno aboliti in favore di una riorganizzazione della rete assistenziale in ambito di salute mentale. Anche se il momento dell’effettiva apertura delle porte degli istituti psichiatrici non fu affatto semplice da gestire. Soprattutto per tutte quelle persone che non erano minimamente pronte per un passo di questa portata, spaventati da ciò che avrebbero incontrato fuori, sul loro cammino. Avrebbero dovuto confrontarsi con quel mondo che li aveva esclusi, e che aveva fatto di tutto per eliminarli. La portata della rivoluzione sta nel fatto di aver creato una rottura dalle conseguenze bidirezionali, coi malati che escono e la società che entra. Uno scambio da cui nascerà un futuro diverso, sicuramente migliore, anche se, negli anni non tutto andrà a finire come prospettato. Ma questa è un’altra storia, di cui, magari, un giorno, parleremo.