For The Pyres, Giac Taylor, Goblyns, Helheim e Signeri. Le cinque dita di una mano che chiede perdono per aver contribuito a creare un mondo oscenamente indirizzato verso una deriva che pare inarrestabile. Forse non serviranno a invertire il mood dei nostri pensieri, ma almeno un ascolto interessato lo meritano.
For The Pyres – At The Pyres of Sin
I For The Pyres sono nati nel 2020, e, dopo un EP nel 2021, e un paio di singoli negli ultimi due anni, arrivano oggi al loro debutto sulla portoghese Gruesome Records. Il loro è un death metal “old style” che ci riporta indietro nel tempo, ma con intelligenza e sincerità. Dopo aver steso un velo pietoso sui testi (gli ennesimi cliché metal su guerre, pestilenze e roba del genere) andiamo alla musica. E su quella c’è poco da dire. L’album è davvero ben fatto.
Niente di trascendentale, sia chiaro, ma c’è tutto quell’approccio spontaneo degli anni novanta di stampo scandinavo, e questo basta. Un sound diretto, giustamente sporco, senza orpelli, che va a segno immediatamente con tanta, tantissima energia. Non è la prima band svedese che mi capita di ascoltare recentemente, e che sembra orientata ad una riscoperta dei Sunlight Studios, e di tutto quello che di storico è stato creato là dentro.
Un disco che quindi va bene sempre e comunque, grazie alla sua capacità di alienare il tempo, riportandoci indietro ai furiosi anni che ci hanno fatto godere, e che, talvolta rimpiangiamo, soprattutto quando ascoltiamo il death metal moderno, troppo patinato e troppo tecnico per affascinare, e solleticare degli ultracinquantenni apatici come noi.
Giac Taylor – The Last Sicilian Standing
Giac Taylor è il progetto solista di Giacomo Panarisi, batterista belga di chiare origini italiane.
L’idea di questo album è nata durante la pandemia, per alienare la noia dei mesi confinati in casa. È l’ultimo disco che viene pubblicato, tra quelli che ha realizzato in quel periodo, disturbante per un verso, carico di stimoli per un altro. La storiografia ufficiale della band dice che sia stato registrato tutto in poco più di 24 ore. Al netto di questo, l’album ha una sua dignità che prescinde dalle tempistiche più o meno reali. “The Last Sicilian Standing” è infatti un ottimo esempio di come si possa guardare al garage rock senza dover per forza scimmiottare i mostri sacri.
Quello che rende l’album particolarmente interessante è la capacità del quartetto di guardare sempre al groove come elemento portante intorno a cui costruire i brani. Tra richiami hard rock e glam l’album procede spedito verso la conclusione senza che quasi ci se ne renda conto. Un album a tratti ruvido, a tratti scintillante, ma che non fa mai cadere l’attenzione durante l’ascolto. Dispiace che, con un titolo del genere, tranne che in un paio di passaggi, la musica italiana tradizionale non sia quasi contemplata, ma, del resto, non si può avere tutto. Se davvero è nato e cresciuto in un giorno solo di più non si poteva chiedere.
Un album che riconcilia con il piacere di ascoltare musica senza perdersi troppo in tecnicismi privi di cuore. Una postilla finale – Dopo tante cover inguardabili, finalmente una che solletica l’immaginazione.
Goblyns – Three Sisters
Terzo album in tre anni per il trio berlinese. In continuità con i precedenti episodi i Goblyns continuano a esplorare la musica degli anni a cavallo tra i sessanta e i settanta. Che dire del disco senza doversi per forza ripetere ad ogni loro uscita? Intanto che questo “Three Sisters” (per la prima volta) non è interamente strumentale.
In una manciata di episodi troviamo infatti la voce del batterista Francis Broek che fa capolino. E già questo basterebbe per incuriosire chi si è voracemente nutrito dei Goblyns negli anni scorsi. Ma c’è di più. Il trio non ha infatti perso la voglia di sperimentare, andando avanti in quel percorso che si muove tra funk, soul, krautrock e psichedelia.
Il tutto con grande grazia ed eleganza, senza mai strafare, cercando di prediligere, sempre e comunque, l’armonia di fondo. Sinceramente ascolterei i Goblyns per ore, a ripetizione, con la certezza di non annoiarmi mai, riuscendo a scovare ad ogni ascolto quel dettaglio nascosto a cui prestare attenzione, e, conseguentemente, a ribaltare il punto di vista (o di ascolto) del disco.
Un album stimolante come pochi altri tra quelli scoperti di recente, in questa estate che si sta rivelando calda oltre ogni nefasta previsione. Non c’è un brano che si eleva sopra la media, e questo che per alcuni può essere considerato come un limite, per noi, invece diventa un vanto, che rafforza ulteriormente l’idea che abbiamo tra le mani un disco compatto, dove tutti i brani sono potenzialmente dei singoli.
Helheim – HrabnaR/Ad vesa
Quella degli Helheim è una carriera trentennale che li porta ad essere tra i pionieri del viking metal. Il loro debutto (“Jormundgand”) è infatti datato 1995. Ma la cosa sorprendente è che tre quarti della formazione originale sono ancora qui, oggi. La genesi di “HrabnaR/Ad vesa” è quantomeno singolare. Gli otto brani sono stati infatti equamente divisi in due parti distinte curate dai singoli membri. In pratica è come se gli Helheim avessero realizzato uno split album tra loro stessi.
Il tutto ovviamente, e fortunatamente, senza perdere un grammo della loro indole sonora che abbiamo avuto modo di apprezzare in questi decenni. Il quartetto di Bergen riesce ancora una volta a mostrare tutto il suo potenziale sonoro con un album che suona vikingo al 100%.
Il risultato è che abbiamo due diverse interpretazioni del classico sound degli Helheim. Un sound che se ne frega dei trend del momento, delle mode, che non guarda all’esterno, continuando a indirizzare l’ascolto verso quel monolitico e tradizionale approccio con cui si sono fatti apprezzare e conoscere. I due lati del disco si completano ottimamente, andando a creare un unicum che suona armonicamente omogeneo. Grazie anche ad una cura per i dettagli che lo rendono gradevole all’ascolto anche nelle parti più iconoclasticamente orientate al caos.
Signeri – Signeri
Debut album per gli svedesi Signeri, realtà finora praticamente sconosciuta, che mostra però una grande personalità, che permette loro di ritagliarsi uno spazio importante in ambito estremo, grazie all’omonimo album, realizzato insieme alla ViciSolum Records di Stoccolma. Un album oscuro, a tratti inquietante, che riesce a conquistare l’attenzione sin dalle prime battute, e che sostanzialmente mantiene quanto promette in apertura. I Signeri riescono ad essere malignamente duri, e al tempo stesso, ad inserire melodie trascinanti che funzionano da contraltare, realizzando un sound che per essere quello di una band al primo album è di tutto rispetto.
Soprattutto perché mostra la (giusta) ambizione di provare a realizzare un disco che suoni omogeneo, con una scrittura e una costruzione quanto mai eterogenee. Non è facile dire che cosa il futuro potrà regalare alla band. Se, cioè, sceglieranno di andare in una direzione più (facilmente) inquadrabile o se, invece, continueranno a flirtare con l’imprevedibilità che contraddistingue questo loro debutto. Di certo c’è il fatto che da un punto di vista creativo i Signeri non hanno nulla da invidiare alle realtà (oggi) più affermate.
La profondità emotiva che emerge dal disco li colloca tra quelli a cui prestare (maggiormente) attenzione nel futuro più prossimo.