“Ordigni. Storia del punk a Bologna” di Riccardo Pedrini (Hellnation Libri)
Riccardo Pedrini, ha diviso il suo impegno nel primo decennio del nuovo millennio tra i Nabat, con cui ha suonato la chitarra, e il Collettivo Wu Ming, dove ha militato come Wu Ming 5. Ha lasciato entrambi i progetti tra il 2015 e il 2016. Lo ritroviamo oggi, nella veste di scrittore, con il proprio nome e cognome, presentandovi “Ordigni. Storia del punk a Bologna”, uscito in prima battuta nel 1998, e ristampato un paio d’anni fa dalla Hellnation Libri.
Se avessimo dovuto individuare una figura a cui lasciare la parola per raccontare, da dentro, il movimento skinhead, non avremmo avuto dubbi. La nostra scelta sarebbe ricaduta su Riccardo Pedrini. “Ordigni, storia del punk a Bologna” va esattamente in questa direzione, quella di guardare a un periodo storico e di raccontarlo attraverso i suoi protagonisti. Prima di addentrarci nell’analisi del testo, fermiamoci però un attimo. Qualcuno di voi, leggendo le premesse, potrebbe già storcere il naso, in odore di contraddizione. Parliamo di skinhead ma il titolo del libro fa riferimento al punk. Giusta osservazione. Ma solo fino a un certo punto. Noi siamo infatti tra coloro che guardano ai due concetti consapevoli di una distanza davvero minima (sempre che esista, ma questa è un’altra storia) che li separa. Per certi versi i due termini potrebbero essere usati come sinonimi. Guardare alle cose senza questa consapevolezza significa approcciare il testo di Pedrini con un vizio iniziale, di non poco conto.
Dobbiamo, innanzitutto, contestualizzare il tutto da un punto di vista storico. Siamo negli anni ottanta, a Bologna. Il punk dell’ondata britannica del ‘77 è finalmente arrivato anche da noi, in Italia. E Bologna, da sempre, avanguardia in ambito sociale e musicale, è lo scenario in cui collochiamo il romanzo di Pedrini. Si parte da qui, dalla necessità di cambiamento per un’intera generazione, uscita con le ossa rotte dal decennio precedente. È il momento di riprendere in mano tutto quanto e di andare verso quella ribellione da troppo tempo sopita.
In città gli echi del punk d’oltremanica erano arrivati grazie al passaparola e alle esperienze dirette dei pochi, fortunati, che al tempo avevano le possibilità, soprattutto economiche, per raggiungere la terra d’Albione, e toccare il tutto con mano. Il punk era una rivoluzione a tutti gli effetti. Non solo musicale. Bologna rispose alla grande, con l’immediato proliferare, quasi impossibile da arrestare, di band di giovani e giovanissimi mossi dalla necessità di comunicare la propria rabbia, il proprio disagio, il proprio rifiuto verso un mondo troppo statico per il loro entusiasmo.
C’erano già realtà piuttosto consolidate, come Skiantos e Gaznevada, ma non erano abbastanza. Non riuscivano a soddisfare la voglia di ribellione dei ragazzi di allora. La loro era una ribellione quasi “istituzionalizzata” e conseguentemente sterile, inoffensiva, innocua. I teenager di allora, volevano di più. E ci volle proprio tutto il coraggio di una generazione di visionari, e di folli, per mettere in piedi un movimento che, ancora oggi, a distanza di anni, continua ad affascinare chiunque decida di approcciarlo. In un attimo la città prese fuoco sotto la spinta di un movimento controculturale, che guardava all’anarcopacifismo prima e al nichilismo poi, con una visione che non poteva prescindere dall’idea di autogestire i propri spazi. Bologna era, a detta della politica di regime, “la città più libera e meglio governata del mondo”. La ribellione andò proprio contro questa visione istituzionale. Sancendo lo strappo con il padrone PCI.
Pedrini racconta e si racconta. Mettendo in piazza, senza censure, il suo rapporto con i Nabat, prima da ascoltatore, da estimatore, e poi come membro effettivo della band. Buona parte del romanzo sta proprio qui, e ruota appunto intorno ai Nabat, realtà che, come tutte quelle di un certo livello, ha un impatto tale che finisce per dividere, in modo piuttosto netto. Fu così anche per loro, non solo a Bologna ma in tutta Italia. Che i Nabat, al tempo, fossero una spanna sopra la maggior parte delle altre band è innegabile. Ma non era questo ciò che contava, bensì quello che i Nabat stavano a significare e quello che avevano da dire. Era questo che li faceva preferire.
Tra le testimonianze più interessanti non possiamo non andare a scovare quella relativa alla spaccatura tra i Nabat, e il loro approccio nichilista, e i Raf Punk di Helena Velena, più orientati verso l’anarcopacifismo. Una sfumatura che diede origine ad una rivalità che si percepisce chiarissima andando a leggere (con malizia) tra le righe del romanzo di Pedrini. Erano sostanzialmente due facce della stessa medaglia che avevano scelto due strade alternative, e per nulla coincidenti, o conciliabili, per arrivare alla destinazione comune.
Intorno alla storia di Pedrini e dei Nabat, c’è tutto il corollario di storie più o meno importanti, e di tutte le dinamiche che ne sono derivate. Bologna anche qui è lo sfondo ideale per raccontare i mutamenti sociopolitici di una generazione che ha visto cambiare il mondo, e ha sognato di dare una spallata a quel mondo opprimente che stava vivendo. Ma non c’è solo la musica. C’è la violenza verbale e non della lotta politica. Ma anche la grande, e ingombrante, presenza della droga che sancì, con la propria capillare diffusione, il riuscito tentativo dello Stato di spegnere il fervore di quei giorni. Un po’ quello che accade al giorno d’oggi con internet e la rete, altra “droga”, virtuale in questo caso, che è riuscita nel compito di spegnere le coscienze di tutti, compresi (anzi soprattutto) quelli che potevano essere inquadrati come i più rivoltosi.
Le improvvisate scorribande per concerti su e giù per l’Italia, con mezzi di fortuna e pochissimi soldi, ma con l’entusiasmo e l’ingenua e trascinante voglia di fare tutto quello che volevano. I dischi, gli amori, le delusioni e le morti premature. Gli scazzi e le risse, le ubriacature e le manifestazioni politiche. Un malcontento sociale che fece deflagrare la protesta, con un’esplosione di rabbia a tratti incontrollata, ma sicuramente condivisibile. Era il no future che cantavano (più o meno sinceramente i Sex Pistols).
Non solo i Nabat dunque, ma il movimento skinhead con tutte le sue contraddizioni e le sue caratteristiche. Dalle realtà che finirono per flirtare (soprattutto in Veneto) con le idee neonaziste, alla costante presenta dei nichilisti in Curva Andrea Costa per seguire il Bologna. Un movimento che rifiutava la politica ma erano costantemente alle prese con un contesto ultrapoliticizzato da fronteggiare praticamente ogni giorno. Quello Skinhead era un movimento attentissimo ai dettagli (e ai dettami) estetici, al contrario dei punk veri e propri che lasciavano una certa libertà che non per forza di cose doveva coincidere con la cresta.
La nostra chiave di lettura ci pone il romanzo di Pedrini in un’accezione che punta al sodo, al raccontare i fatti per quelli che furono, anche (giustamente) in maniera cruda, senza risparmiare critiche e autocritiche. “Ordigni” è un testo che racconta la storia di chi ha messo la musica al centro della propria esistenza, ma con la musica, e dalla musica, non ha avuto in cambio quasi nulla, al netto di una moltitudine di ricordi di cui andare fieri. La voglia di raccontare, non di fare un testo che possa suonare come enciclopedico, come atto quasi masturbatorio. Se così è significa che l’ardore rivoluzionario è andato a spegnersi, e siamo diventati esattamente ciò che criticavamo e che avevamo eletto a nostro nemico.
La chiusura è segnata dal famoso raduno di Certaldo, vicino Firenze, dove tutto andò a morire. Emersero le insanabili divisioni politiche con il proliferare dell’ala neonazista e l’impossibilità di andare oltre. Il movimento si spacca, dall’interno e tutto finisce, nel peggiore dei modi. Forse, ripensandoci ora, non poteva esserci altra fine che questa. Tanto entusiasmo iniziale non poteva che portare a tanta delusione.