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Recensione : LAS VULPESS – ME GUSTA SER UNA ZORRA 7″

C’era una volta la “Movida“, un movimento culturale e artistico che si sviluppò in Spagna (soprattutto nella sua capitale, Madrid, al punto da essere identificata, nell’immaginario collettivo, come la “Movida Madrileña”) nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, dopo la morte del “caudillo” dittatore fascista Francisco Franco (nel 1975) e il conseguente disfacimento di quaranta anni di regime franchista oscurantista e totalitario che aveva oppresso qualsiasi forma di libertà artistica e ogni opposizione alla dittatura fascista. In quel periodo storico di transizione e di ritorno verso la “democrazia”, alla fine dei Seventies (o meglio, de los Setenta) e per tutta la decade degli Ottanta, i giovani volevano recuperare il tempo perduto e, inebriati dal vento di liberazione, decisero di vivere sulla propria pelle tutto ciò che era stato proibito dal franchismo alle precedenti generazioni: la ritrovata libertà di espressione, di autodeterminazione e di azione, la tolleranza e l’accettazione del “diverso“, la voglia di sperimentare la cultura underground, le droghe, l’amore libero e liberato dagli schemi convenzionali e tradizionali, le nuove tendenze musicali, artistiche, etiche e di costume che arrivavano dall’Inghilterra e dal mondo anglofono (il punk e il post-punk britannico e la scena newyorchese) il tutto unito all’esuberanza e al ribellismo giovanile repressi per decenni, generò un’imponente ondata (definita “la nueva ola“, praticamente la declinazione spagnola della new wave) di creatività, controcultura, novità e innovazioni che abbracciarono le arti visive e grafiche (che avevano eletto Andy Warhol come nume ispiratore) la pittura, la fotografia, il disegno, il fumetto, la letteratura, il cinema (che vide sbocciare il talento dell’oggi globalmente famoso cineasta Pedro Almodóvar) il teatro, la radio, nuovi spazi creatisi in televisione (come il rivoluzionario programma musicale “La Edad de Oro“, che ospitava, sulla TV nazionale, i gruppi spagnoli e i protagonisti della nueva ola come i Parálisis Permanente del compianto Eduardo Benavente (morto a soli vent’anni in un incidente stradale) Siniestro Total, Kaka De Luxe, Polansky y el Ardor, Alaska y los Pegamoides, Loquillo y los Trogloditas, Derribos Arias, ma anche band e artisti stranieri come Lou Reed, Alan Vega, Echo and the Bunnymen, Killing Joke, Residents, Cabaret Voltaire, Johnny Thunders, Psychedelic Furs, i Gun Club e altri, che suonavano dal vivo e non in playback, e dove era permesso fumare in trasmissione e i musicisti venivano intervistati ed erano liberi di esprimersi su tutto, a ruota libera, senza censure, in un vortice di anarchia creativa fuori dagli schemi: causarono un putiferio l’ospitata dei Lords of the New Church, dove Stiv Bators si abbassò pantaloni e mutande in diretta, o Almodóvar che svelava candidamente quale fosse la sua droga preferita; ma il casus belli definitivo fu individuato nella puntata del 16 ottobre del 1984 (censurata)  nella quale furono proiettate fotografie di Robert Mapplethorpe raffiguranti umanità nuda e, soprattutto, vennero mostrate immagini di una persona crocifissa con la testa di un maiale, la finta celebrazione di una messa cattolica e una coppia nuda in una tomba. A causa di questi misfatti, considerati inaccettabili e “incostituzionali” dall’ala più reazionaria e “timorata di Dio” oltranzista della società del tempo, furono fatte interrogazioni parlamentari e fu chiesta (e ottenuta) la chiusura del programma nel 1985 (con la conduttrice, nonché agitatrice culturale della Movida, Paloma Chamorro, addirittura finita sotto inchiesta per “blasfemia” e poi assolta) la moda e, ovviamente, la musica, con il proliferare di fanzines ed etichette discografiche indipendenti. Fermento culturale, Do-It-Yourself in antitesi alle multinazionali per creare un mondo nuovo e network aperti al mondo ma che raccontassero anche quanto succedeva nelle strade e nei club, la resurrezione di un’altra Spagna, quella erede del genio di patrimoni dell’umanità come Salvador Dalí, Picasso o Miró, ma che voleva essere inclusiva e non più divisiva. Non contava essere per forza dei virtuosi o gareggiare per essere i primi della classe, ma bastava la fantasia al potere (come in una Bologna del 1977 amplificata) tigna, inventiva, spirito dadaista, nuove suggestioni surrealiste, immaginazione e la collaborazione tra varie discipline artistiche per esprimere visioni, idee e dare un senso alla propria esistenza dopo quattro decadi di grigiore e conformismo. Una esplosione di colori, suoni, disegni, concetti e immagini inizialmente partiti dal basso e poi inglobati ufficialmente in un movimento propriamente riconosciuto. Vita notturna movimentata e popolata da una rinnovata volontà di uscire, riappropriarsi delle strade e della vita socio-economica spagnola, la gioia di riaprirsi al mondo e alle modernità della cultura alternativa, trasgredire, lasciarsi andare agli eccessi dell’edonismo, dell’esibizionismo e del divertimento (ispirandosi a quanto era accaduto a Londra e in tutta la UK messa a soqquadro dai Sex Pistols e dalla rivoluzione punk rock dal 1976 in avanti, a livello musicale, etico, estetico, concettuale, di costume, di moda e di immagine) e nuovi punti di ritrovo, pub e locali come il Rock-Ola, l’ex cinema Carolina, la sala El Sol, El Penta e La Via Láctea, assurti a Mecca delle nuove scene e avanguardie.

Di quella stagione di rinascimento culturale e generale, ovviamente, a noi interessa approfondire il lato musicale, più precisamente il movimento punk deflagrato con la caduta del totalitarismo fascista. E, a questo proposito, ci ha pensato la benemerita Munster Records, ormai veterana etichetta indipendente fondata dai fratelli baschi Pastor, a rimestare in quel passato e rigirare il coltello nella piaga. Sì, perché recentemente la label ha ristampato un singolo che quarant’anni fa, quando uscì nel 1983, scatenò un pandemonio per via dei suoi “contenuti espliciti”. Stiamo parlando dell’iconico 7″ “Me gusta ser una zorra” delle Vulpess (col moniker scritto con la doppia S riprodotta a mo’ di emulazione neonazi, messa lì dall’etichetta Dos Rombos Discos per provocare la società borghese benpensante e perbenista dell’epoca, che in fondo non è molto diversa da quella di oggi) all-female band basca, uno dei gruppi protagonisti della prima scena punk spagnola insieme a La Polla Records, Eskorbuto, Kortatu e La Banda Trapera del Río tra gli altri. Queste quattro cattive ragazze si divertivano a shockare l’opinione pubblica (ancora intrisa della crosta di bigottismo religioso clericofascista e ipocrita moralismo lasciati in eredità dall’ex regime franchista) già dal nome: “volpe” nello slang significa “prostituta”, e quindi irricevibili per la società “bene” anche solo a leggere di loro, delle loro “gesta” sovversive e osservare il loro modo di porsi: in pieno spirito oltraggioso punk, quattro adolescenti o poco più, tutte comprese, all’epoca, tra i 17 e 21 anni (Loles Vázquez alias «Anarkoma Zorrita» alla chitarra, Mamen alias «Evelyn Zorrita» alla voce, Begoña «Ruth Zorrita» al basso e Lupe Vázquez alias «Pigüy Zorrita» alla batteria) accomunate dal “cognome” Zorrita (alla stregua dei finti fratelli portoricani Ramones) formatesi nel 1982, nella loro breve esistenza hanno comunque lasciato il segno nel rock ‘n’ roll iberico, sull’esempio dei Sex Pistols, facendo del punk rock uno stile di vita e un ideale libertario per il quale sporcarsi concretamente le mani, suscitando indignazione e disgusto in un largo segmento di pubblico adulto con le loro provocazioni linguistiche, concettuali e di costume. Durante la loro turbolenta avventura, le nostre malas chicas arrivarono a registrare un solo singolo ufficiale, uscito sulla label Dos Rombos Discos, che fu appunto “Me gusta ser una zorra“, loro personalissima rielaborazione in chiave libertina del brano degli Stooges “I wanna be your dog“, che col testo declinato in spagnolo (col titolo che diventava: “Mi piace essere una troia“) e un linguaggio sboccato aveva sortito un effetto ancora più esplosivo e urticante (rispetto al classico di Iggy e soci) nel mainstream dell’epoca del loro Paese, appena uscito da quattro decenni di puritanesimo dogmatico, e che in una mattina di aprile del 1983 fece scoppiare uno scandalo di dimensione nazionale. A nulla, in effetti, valse l’avviso “spoiler” sulla copertina del single, che recitava: “Si avverte che le canzoni di questo disco possono ferire la sensibilità di chi ascolta“.

Era infatti il 16 aprile 1983, un sabato mattina, quando ebbe luogo la tempesta perfetta. Sulla rete ammiraglia della televisione spagnola di stato, TVE (che è un po’ l’equivalente della “nostra” Raiuno) andava in onda un programma musicale intitolato “Caja de Ritmos”, condotto dal giornalista e critico musicale Carlos Tena (purtroppo venuto a mancare pochi mesi fa) già in precedenza autore del brillante format alternativo “Popgrama” che aveva sdoganato nelle case degli spagnoli la controcultura nell’arte attraverso il cinema, i fumetti e la musica (con l’arrivo del nuovo rock ‘n’ roll e della prima scena punk). Carlos, con una invidiabile dose di coraggio, in quell’episodio aprilino di “Caja de Ritmos” (era appena il secondo appuntamento) decise di rischiare e di promuovere le Vulpes e di far trasmettere il videoclip di “Me gusta ser una zorra“, quasi a ora di pranzo, quindi in piena “fascia protetta”. Come era facile prevedere, l’immaginario e le liriche scurrili evocati dal testo fecero esplodere un tumulto mediatico, venendo prese di mira dalla parte di opinione pubblica più conservatrice e moralista del Paese, avvilita, che si ritenne offesa da quello che, a loro dire, era stato uno spettacolo indecoroso offerto dalla televisione nazionale che, invece, avrebbe dovuto evitare la messa in onda di simili “oscenità”, e subito invocava la chiusura della trasmissione (che sarebbe arrivata tre mesi dopo il “fattaccio”) i cui autori e Tena (che, un po’ come Bill Grundy coi Sex Pistols, finì nell’occhio del ciclone e fu costretto a lasciare il programma) furono oggetto di una denuncia e di una causa legale, intentatagli dal procuratore generale di stato dell’epoca, e un processo per il reato di “pubblico scandalo”, con la vicenda che si concluse, dopo due anni, con una sentenza assolutoria. Ma se l’obiettivo delle ragazze di Bilbao era quello di fare casino e fare scalpore, ci riuscirono in pieno e, approfittando della cattiva fama pubblicitaria generata dall’episodio “incriminato” sulla TV nazionale, l’etichetta Dos Rombos aggiunse una “S” sulla copertina del singolo, utilizzando un’iconografia neonazi, come detto in precedenza, per continuare a incendiare il fuoco della polemica. I concerti suonati per promuovere il “singolo proibito” spesso finivano anzitempo a causa di incidenti, con le Vulpes arrivate a essere oggetto di “particolari attenzioni” riservategli da parte della polizia (che le sorvegliava) e di “adepti” dell’estrema destra che le attaccavano violentemente. Anche il lato B del singolo non scherzava in quanto ad andarci giù pesante: il brano “Inkisici​ó​n” prendeva di mira la chiesa cattolica e i suoi assassini modi repressivi e mezzi di coercizione usati contro gli “eretici” (tipici del periodo dell’Inquisizione) di ogni tempo.

Quanto basta, insomma, per elevare la propria “dannazione” allo status di “mito” e di cult band, le Vulpes sono state un’idea, più che un gruppo: una visione pionieristica. Due sole canzoni pubblicate ufficialmente, cinque minuti di registrazione diventati oggetto di feticismo da parte dei collezionisti, ansiosi di mettere le mani sul “frutto del peccato”, uno dei primi vagiti del punk rock cantato in spagnolo, un 45 giri che “ha fatto epoca” e resterà per sempre un momento iconico di un particolare periodo in cui le ultime vestigia di una dittatura fascista cercavano ancora di mettere la mordacchia alla libertà di espressione e allungare i tentacoli sulla morale pubblica e il comune senso del pudore di una nazione. Ma questo vale anche per le cosiddette “democrazie” che, invece di reprimere apertamente il dissenso e la controcultura giovanile, attuano metodi più subdoli per ammansirla e neutralizzarla, relegandola in recinti e innocue riserve indiane, o infiltrando i movimenti con vari “cavalli di Troia” pseudo-edonistici che hanno lo scopo di distrarli dall’impegno sociale e politico, destabilizzarli mentalmente e distruggerli fisicamente (vedasi l’operazione “Bluemoon” in funzione anti-hippie e anticontestataria, guerre psicologiche “a bassa intensità” messe a punto negli anni Sessanta dai servizi segreti deviati del “Paese delle libertà” per eccellenza, gli Stati Uniti, e poi esportate anche in Europa e Italia negli anni Settanta e Ottanta in funzione anticomunista, antioperaia e contro le istanze rivoluzionarie del movimento giovanile studentesco universitario dell’epoca, con almeno due generazioni devastate e annientate dall’eroina, “killer di Stato”, la “droga dei padroni”). Fuck the policía, let’s dance!

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