Perché in Italia il sistema musicale non assegna i giusti spazi a ottime band nostrane provenienti dall’underground (che siano di estrazione rock ‘n’ roll o elettronica non convenzionale, o qualsiasi altro genere poco appetibile per il mainstream patinato) preferendo invece puntare SEMPRE sul “sicuro”, sul solito e rassicurante poppettino banale sanremese (inclusa la brodaglia finto-“indie”) con testi tutti uguali, “sole-cuore-amore-dolore-fiore-mare-ballare” così melensi da far venire il latte alle ginocchia? Perché le multinazionali discografiche e i media (radio, televisioni, web, megastore fisici) fanno da cassa di risonanza solo ed esclusivamente per robetta usa-e-getta e canzonette con testi demenziali che, di fatto, sono classificabili come inquinamento acustico? Perché oggi si impone ai giovanissimi (e non solo loro) immondizia come il cosiddetto “urban pop” all’italiana, e trappettari bimbiminchia che nei loro “testi” parlano di quanto è figo il crimine e la malavita e glorificare l’uso delle armi e ostentare sfacciatamente la ricchezza economica e sfondarsi di monnezza ai party esclusivi e indossare abiti firmati e sfrecciare sull’asfalto coi bolidi da trecentomila euro e considerare le donne unicamente come oggetti sessuali e trofei da esporre nei videoclip e se sei povero sei solo uno sfigato e altre cazzate? Perché la qualità non viene più valorizzata e si “promuove” solo un conformismo distopico fatto di playback e autotune che rincoglionisce e partorisce nuove generazioni di adolescenti lobotomizzati che recitano a pappagallo puttanate di “lyrics” a mo’ di preghiere?
Che sia una scelta precisa e una strategia decisa volutamente nelle stanze dei bottoni dalle élites del Potere (e intendiamo quello vero, non i poterih fortih che plagiano ammiocugggino perché noncielodicono, gombloddo!) quella di “demonizzare” e delegittimare tutto ciò che è arte e cultura, pianificare il baratro culturale di una nazione (anzi, di un mondo intero, di certo questa non è una piaga soltanto italiana) rimbambendo le nuove leve e, in generale, le persone di questi tempi moderni, plasmando i loro cervelli, impoverendo le loro menti e anime con musichette insulse nella loro imbarazzante superficialità e liriche triviali e fintamente trasgressive, in modo da stordire la gente – ormai privata di guide e strumenti efficaci per orientarsi nel gestire il sapere e crearsi autononamente un pensiero – e indurla ad agire come zombies senza un briciolo di cultura (automi le cui uniche preoccupazioni sono: mangiare, pippare e fornicare) condannata a non pensare con la propria testa e semplificare ogni cazzo di questione, ignorando i veri problemi del mondo di oggi per “concentrare” le proprie energie sulle cagate del gossip (corna e divorzi tra “vip”, o le “kiss cam” ai concerti “in”)? Può essere. Molto probabile. Del resto, il declino di una società è ben rappresentato anche dalla musica ascoltata dalle masse, e un popolo analfabeta è un popolo più facile da piegare ai diktat del Potere, che ha paura dell’arte che scuote le coscienze e incita a mettere in discussione lo status quo.
Come resistere a questo degrado morale? L’unico antidoto possibile, forse, è quello di non far diventare “virale” il letame propinato dai media tradizionali e dall’internet più tossico (social network in primis) ma iniziare a parlare/scrivere di “musica altra” e pubblicizzarla ovunque sia possibile, al fine di creare un minimo di “hype” (che brutto termine, lo so) intorno a proposte sonore e circuiti che si discostano dall’andazzo modaiolo imperante. Tra quelle meritevoli di essere segnalate, certamente, vi si devono annoverare gli A/lpaca, quartetto lombardo, di stanza a Mantova, formatosi nel 2018 e arrivato quest’anno pubblicare al suo secondo full lenght, “Laughter“, che arriva a quattro anni di distanza dall’Lp di debutto “Make it better“, e uscito grazie a una sinergia italo-anglo-tedesca tra le label Sulatron records, Sour grapes e Dischi sotterranei.
Il combo – formato da Christian Bindelli alla chitarra e voce, Andrea Verrastro al basso, Andrea Fantuzzi alle tastiere e Andrea Sordi alla batteria e alla drum machine – è fautore di un mondo sonico a tinte post-punk/kraut/noise/psych rock, suonando in giro per l’Europa e facendosi conoscere anche negli States, affinando le proprie abilità e allargando la tavolozza del proprio sound che, se nel primo long playing era più incentrato sulla componente psych/punk della loro proposta, in “Laughter” si evolve aprendosi a un maggiore uso dell’elettronica, pur conservando una matrice “kraut”, più asciutta nel minutaggio e più incline a deviazioni ritmiche synthetiche (frutto di contatti dei nostri con l’ambiente dei club sotterranei, che li ha orientati verso ascolti più sperimentali) che, tuttavia, ben si amalgamano nel corso dell’opera. Le tastiere e le drum machine si ritagliano un ruolo più definito tra le chitarre elettriche e le batterie acustiche nella costruzione del tappeto noise dei brani: col tempo si cresce e, oltre ai concerti e alle espressioni artistiche, ciò che più conta davvero è il supporto di amici fidati coi quali divertirsi e mandare affanculo i problemi e dei casini della vita durante le serate passate a bere e suonare nei club.
“Evil pawn” setta subito le coordinate del disco su un mood nervoso e minaccioso, con un basso pulsante, che prosegue nel post-punk industrializzato à la Killing Joke di “The confident laughter” e “An encounter“, e la quasi title track “Laughter, us us” chiude il primo cerchio di noise rock saturo. Con l’intermezzo “Bianca’s videotape” i nostri cambiano le carte in tavola e iniziano a confondere le acque nella seconda parte del platter, con le ambigue ibridazioni di “Balance” che lasciano il posto a veri e propri flirt con propulsioni motorik, “Brano Fantuzzi” sgombera il campo da tutti i dubbi e si lancia spedito in un pezzo industrial looppato e paranoicamente danzereccio. “Empty chairs” ritorna su inquietanti e agitati lidi post-punk ubriachi di psichedelia. “Kyrie” è un altro viaggio otherworldly verso universi electro, “Who is in love daddy?” è una nenia Barrettiana psych/folk che prepara la strada al finale affidato a “Don’t talk“, con quelle atmosfere e tastiere Eighties che non avrebbero sfigurato nel repertorio dei Cure di quel decennio.
La vita è troppo breve per ascoltare musicademmmerda, e quindi, visto che si parla tanto di “valorizzare le eccellenze del territorio”, si cominci anche dalla musica, dando una chance concreta a gruppi nostrani veramente validi e, tra questi, indubbiamente, vanno annoverati anche gli a/lpaca. La regressione universale di questo pianeta sarà anche inesonerabile, ma col cazzo che ci arrenderemo.











3 risposte
Caro Rev, ti leggo spesso (grazie per le dritte!) e condivido la tua premessa all’ennesimo bel disco italiano che, come tutti gli altri, avrà zero possibilità in termini di promozione e diffusione.
Credo però che la faccenda sia più complicata.
Poche, troppo poche, le occasioni in cui le nostre band più interessanti possono condividere il palco come, per esempio, succedeva nei ’90, quando il rock alternativo italiano faceva buoni numeri anche in prospettiva commerciale. Son convinto che una scaletta con Smalltown Tigers, Devils, New Candys, Elli, Peawees, Cosmic Room 99, etc., potrebbe incuriosire anche i ventenni più riottosi alle derive del r’n’r che noi preferiamo.
Per la maggioranza di questi ragazzi, garage, punk, post, power, sono sigle vuote di significato. Non hanno idea che in giro per il mondo centinaia di loro coetanei tengono viva quella ribellione generazionale fatta con le pochissime cose rumorose di sempre: chitarre, basso e batteria. Basta farsi un giro su Bandcamp per sincerarsene, innumerevoli le scene cittadine e nazionali che certificano le evidenze anagrafiche dei loro protagonisti.
Perchè da noi questo non succede?
Credo ci sia una responsabilità del nostro sottobosco musicale che non fa squadra, le band, le etichette indipendenti, i siti, le riviste e le fanzine di settore raramente comunicano tra loro. Dovrebbero invece creare una rete, sentirsi, organizzare concerti, usare i mezzi della comunicazione con la stessa disinvoltura social di trapper e popettari così da fare diventare “virale e figo” anche il nuovo r’n’r targato Italia. Non basta il passaparola, ci vuole una rivoluzione dal basso che utilizzi la moderna comunicazione e un po di sana autostima: ce l’hanno fatta quel bimbominchia (come dici tu), perchè noi no!
Ciao Giorgio, innanzitutto grazie a te per seguirci e leggere le nostre recensioni: anche se non sembra, ogni tanto sentirsi dire certe cose fa tanto piacere e rinfranca l’animo! In un certo senso, stiamo dicendo la stessa cosa, anch’io nella rece avevo scritto che “l’unico antidoto possibile, forse, è quello di non far diventare “virale” il letame propinato dai media tradizionali e dall’internet più tossico (social network in primis) ma iniziare a parlare/scrivere di “musica altra” e pubblicizzarla ovunque sia possibile”, inclusi i social, chiaramente. Utilizzare i mezzi che i ricchi biliardari, nella loro “magnanimità”, ci mettono a disposizione per provare a piegarli ai nostri “scopi pubblicitari” di diffusione. Per il resto, non posso darti torto sul fatto che l’italiano medio, purtroppo, ha una natura fortemente individualistica ed è allergico all’idea di “fare rete” e cooperare con altre associazioni ed entità affini perché, alla fine, ognuno pensa solo a coltivare il proprio orticello (e non soltanto in ambito musicale, ahinoi). Noi, nel nostro piccol(issim)o, cerchiamo di fare in modo che le varie realtà indipendenti (gruppi, label, negozi fisici, organizzatori di piccoli concerti) vengano in contatto tra loro e collaborino nel nome del DIY, per far crescere un’idea “altra” di promuovere la musica e, in generale, l’arte secondo una logica non monetaria/consumistica ridondante, ma soprattutto etica. Le etichette “garage rock, punk, post-punk, power pop” ecc. ecc. servono soprattutto per orientare l’ascoltatore e indirizzarlo meglio verso la materia di cui legge. La situazione è disperata, e il rock ‘n’ roll è sempre più percepito, dalle masse, come qualcosa di “vecchio” e diventato come i dinosauri che si era prefissato di combattere, ma uno, in cuor suo, spera sempre che là fuori ci sia sempre più di qualche persona che apra gli occhi, si incuriosisca ed esca dal seminato, scoprendo roba “alternativa” all’immondizia imperante, come quella che proponiamo nelle nostre recensioni.
Grazie per l’attenzione. Speriamo che anche grazie a spazi liberi e indipendenti come il vostro le cose possano cambiare.
Saluti,
Giorgio