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Webzine dal 1999

FLASH ON YOU

inauguriamo una nuova rubrica periodica di retrospettive per parlare di band e recensire dischi del passato (recente o remoto) con un particolare occhio/orecchio di riguardo per i classici del garage rock/punk, beat, psichedelia, noise, alternative, punk, hardcore ecc. ecc. insomma la nostra musica preferita e quella di cui già scriviamo su InYourEyes nel quotidiano, ma in questa veste tutto verrà filtrato attraverso una visuale retroattiva. Questo nuovo spazio si intitola “FLASH ON YOU“, come uno slogan immediato, in primis inteso come una sorta di omaggio al seminale album dei nostrani Not Moving, ma anche concepito come riflettore (il famoso vecchio “flash” della macchina fotografica) puntato sui più o meno vecchi dischi che andremo a trattare di volta in volta.

Cheater Slicks – Don’t like you (30th anniversary edition)

Era il 1995 quando la benemerita label californiana In The Red Recordings dava alle stampe una delle sue release più riuscite e memorabili: “Don’t like you“, il quarto album – all’epoca – dei Cheater Slicks, terzetto statunitense fondato nel 1987 a Boston (città in cui non si sono mai sentiti capiti né apprezzati, ma che in passato aveva già visto nascere un importante focolaio garage rock/punk, con la presenza di DMZ, Lyres, Real Kids e altre formazioni di outsiders) formato dai fratelli Shannon (Dave alla chitarra e Tom alla chitarra e voce) e Dana Hatch alla batteria e voce, tre ragazzi innamorati del Sixties punk e del rockabilly, e generatori di un sound lercio lo-fi e rumoroso, quasi al limite della cacofonia, che combina garage rock e blues, il tutto filtrato attraverso l’ottica e l’etica del punk rock: si sentivano fuori posto e non erano facilmente classificabili, troppo estremisti per essere annoverati nel nascente movimento “grunge”, e a disagio in un ambiente giovanile cittadino Eighties troppo orientato verso l’heavy metal. Il disco venne realizzato in un tumultuoso periodo di tensioni e problemi economici all’interno del trio, e fu registrato a New York insieme all’amico, e loro supporter, Jon Spencer (con cui andarono anche in tour, insieme alla sua Blues Explosion) che prestò la voce su un brano (anzi, due: in una versione seriosa sul languido spoken word “Sensitive side“, e cazzeggiando nella ghost track posta alla fine dell’ultimo brano dell’Lp, in cui giocava a fare la parte di un tipo che parla al telefono col tizio di un negozio di dischi) e si occupò della produzione del full length, facendo un discreto macello nel saturare e rendere ancora più dissonanti, urticanti ed esplosivi i suoni già incendiari del gruppo. Quest’anno, per festeggiare la ricorrenza dell trentesimo anniversario, la In The Red ha ripubblicato “Don’t like you” in versione aggiornata in doppio Lp arricchito di liner notes, artwork espansi e tracce extra in versione demo, colmando anche la lacuna del rimettere in circolo la versione vinilica dell’album, da decenni fuori stampa. E, per una volta, ci permettiamo il lusso di gioire di una ristampa celebrativa lontana dai riflettori patinati del mainstream, sospinta da zero battage pubblicitario e incentrata sul recupero di sonorità rock ‘n’ roll assolutamente marce (in linea con la seconda ondata di garage rock revival che, tra fine anni Ottanta e metà Nineties, aveva partorito altri ensemble incredibili come Oblivians, Chrome Cranks, Bassholes, Honeymoon Killers, Pussy Galore, Gories e compagnia) che attentano al buongusto dei palati fini e alla salute di parecchi timpani educati (e questo, per noi, è un bene e dovrebbe essere un motivo di vanto). Già dalla sguaiata opener “Feel free” i Cheater Slicks (una di quelle band che non prevedono l’uso del basso nella loro line up) mettevano le cose in chiaro con l’ascoltatore, in modo da fargli capire che, se non scappa via inorridito e gli concede una chance, si lascerà conquistare e non potrà più resistere a un vortice di laido garage punk strascicato e devoto alla lezione aussie degli Scientists, che fa il paio con lo scatenato country/punk di “Motherlode” (che vedeva il padrone di casa degli oggi defunti Funhouse studios di NY, Jerry Teel fare una comparsata alle prese con una allucinata harmonica) e cavalcate impasticcate Stoogesiane come “Destroy you“.  Se con “There’s a girl” trovava spazio un barlume di leggerezza adolescenziale (del tipo: come avrebbero potuto suonare i Beatles ubriachi persi e strafatti di amfetamine ad Amburgo se si fossero divertiti a sfondare gli amplificatori coi loro strumenti e poi schitarrarci dentro per vedere l’effetto che fa) i veri marchi di fabbrica del combo risiedevano negli sgarrupati punk-blues “You ain’t good” e “Spanish rose“, dal ritmo caracollante ma mortifero. Tuttavia, il meglio del peggio viene riservato per la fase finale della tracklist: la cover di “Should I” dei misteriosi Half-Beats (con Hatch che sembra fare il verso a Johnny Thunders) lascia il posto alla tellurica “Poor me” (a detta di chi vi scrive, il picco non-qualitativo di questo lavoraccio) quattro minuti di elettrizzante garage punk che infonde, in chi ci si imbatte, una scarica di adrenalina tale da spingere ad alzarsi entusiasticamente dalla sedia e spaccare tutto. “Sadie Mae” è ancora più depravata nel suo incedere in un fottuto garage punk dinamitardo che non lascia speranza a voi che origliate questi solchi. La cover di “Mystery ship” dei garage rockers newyorchesi Mystic Tide chiudeva col giusto quid di malignità e disperazione un long playing che sprigiona furiose energie represse. Non da meno le versioni demo dei pezzi, ancora più crude e ruspanti di quelle ufficiali, con un plus di ben sei canzoni rimaste fuori dalla scaletta definitiva: “Trouble man” e “Hook or crook” (poi pubblicati come singoli) “Wedding song” e la cover di “Walk up the street” dei Modern Lovers (suonata con l’impeto HC punk dei primi Hüsker Dü, entrambe fatte uscire come 7″) la semiballad “To need someone” e “Ghost” (quest’ultima, successivamente, sarebbe stata inserita nell’album “Forgive thee“, uscito nel 1997) un’altra discesa agli inferi coi santini di Stooges, MC5 e New York Dolls nel portafogli. “Don’t like you” segnò gli ultimi giorni dei nostri a Boston: nel 1996, infatti, i tre si trasferirono in Ohio. Tre decadi sono passate da allora, ma questo disco vi brucerà ancora le budella.

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Grinderman – Grinderman/Grinderman II/RMX

Sono già passati ben venti anni dalla nascita dei Grinderman, e quest’anno, in occasione della ricorrenza in cifra tonda, la Mute records ha ristampato tutta la discografia del progetto, che consta di due album omonimi – col secondo marchiato dal numero “2” per una questione di comodità – e un terzo, “RMX“, composto da rielaborazioni dei brani di “Grindeman 2“. Ma chi sono/erano i Grinderman? E’ presto detto: dietro questo moniker – che prendeva spunto da una canzone del bluesman Memphis Slim – si cela(va)no nientepopòdimeno che Nick Cave e i suoi Bad Seeds (e infatti, in principio, il side project era provvisoriamente chiamato “Mini Seeds”) “asciugati” in una line up a quattro elementi, e l’idea nacque al frontman Cave durante la fase di scrittura dell’album “Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus” dei Bad Seeds, e coinvolse il fido polistrumentista Warren Ellis, il bassista Martyn P. Casey e il leggendario batterista Jim Sclavunos (all’opera anche con Teenage Jesus and the Jerks, Cramps, Sonic Youth, TAV Falco’s Panther Burns e altre rumorose delizie) con la composizione di materiale elettrico più spigoloso e ruvido, nel desiderio di dare sfogo all’anima più viscerale e “disfunzionale” dei Bad Seeds, e avvicinarsi allo spirito artistico anarchico e dissoluto dei Birthday Party, precedente esperienza sonora del Cave più ruspante e “apocalittico”. I nostri si ritrovarono, nel 2006, a Londra, per delle sessions-maratona di quattro giorni sotto la guida del produttore Nick Launay, e pubblicarono l’album omonimo l’anno successivo. “Grinderman” soddisfava l’esigenza di dare vita a un suono più crudo e primitivo rispetto alle atmosfere raffinate dei Bad Seeds di allora (e che, nel corso degli anni a venire, e fino a oggi, si sono ulteriormente alleggerite e allontanate dal (post)punk/garage/blues/goth rock che aveva caratterizzato i loro primi, selvaggi lavori) e vedeva, per la prima volta, Nick Cave non solo al canto, ma anche alla chitarra, a irrobustire un sound garage/alternative rock sospinto dai trascinanti singoli “Get it on” e “No pussy blues” , le dissonanze di “Electric Alice“, i sussulti Stoogesiani di “Depth charge Ethel“, gli scossoni di “Honey bee (let’s fly to Mars)” e martellanti sarabande garage rock (nella conclusiva “Love bomb“) alle quali facevano da contrappunto l’oscura e “minacciosa” title track, suggestioni da crooner (“Go tell the women“) essenzialismi (“Man in the moon“) e i tormenti di “When my love comes down” e “(I don’t need you to) set me free” (i pezzi più BadSeedsiani del lotto). Tre anni dopo il convincente debutto, nel 2010, arrivò il seguito: “Grinderman II“, con la stessa formazione e ancora una volta prodotto da Launay. Il disco riprendeva, grosso modo, le coordinate sonore dell’opera precedente, rendendo, al contempo, la struttura delle canzoni più “matura”, elaborata e rifinita. L’alter ego degenerato dei Bad Seeds tornava a ruggire aprendo il platter con “Mickey Mouse and the goodbdye man“, una sorta di trasposizione del caos dei Birthday Party nel nuovo millennio, e della stessa pasta era fatta anche “When my baby comes“; il grintoso singolo “Worm tamer” graffiava l’aria, il blues rock trasfigurato dal gospel laico pagano ad altezza “The firstborn is dead” o “Tender prey” (dei Cattivi Semi) pervadeva l’altro singolo “Heathen child“, “Evil” e “Kitchenette“, la sulfurea e sordida “What I know” rievocava certe fragranze Doors-iane, la Stonesiana “Palaces of Montezuma” unico momento più accessibile – comunque un gioiello pop di discreta fattura – del full length, prima della fragorosa chiusura col mantra acid rock distorto di “Bellringer blues“. Nel 2012 il long playing fu oggetto di remix, e “Grinderman 2 RMX” vide artisti di varia estrazione (da Robert Fripp agli A Place To Bury Strangers, da Josh Homme a Barry Adamson, da Andrew Wheaterhall a Nick Zinner, dagli UNKLE ai Cat’s Eyes) cimentarsi in rifacimenti delle tracce originarie del secondo “Grinderman”, ai quali venne aggiunto una versione demo del brano “First evil“, altro marasma di rock ‘n’ roll abrasivo. I Grinderman – salvo una fugace reunion avvenuta nel 2013 – si sono “sciolti” nel 2011 dopo un concerto in Australia, ma il “Re Inchiostro” Cave, nonostante ciò, ha lasciato ancora una porta aperta, rispondendo qualche anno fa a una domanda dei fan sul suo sito web/blog, annunciando ufficiosamente che, prima o poi, a “Grinderman 2” potrebbe seguire un ritorno e un nuovo capitolo, a completamento di una trilogia. In attesa di un futuro “Grinderman 3”, ci si accontenta di godere di queste reissues la cui finalità è quella di riportare sotto la lente d’ingrandimento l’acclamato catalogo della band, per i fan di lunga data e per una nuova generazione di ascoltatori. Tra questi solchi è/era documentata la voglia di Cave e soci di ritornare a un sound più spartano, senza curarsi troppo della forma, mettendo da parte i barocchismi e dando spazio al gusto per il cazzeggio: ad oggi restano queste le ultime vere incursioni rock ‘n’ roll del Grand Lord of Gothic Darkness australiano.

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LAS VULPESS – ME GUSTA SER UNA ZORRA 7″

C’era una volta la “Movida“, un movimento culturale e artistico che si sviluppò in Spagna (soprattutto nella sua capitale, Madrid, al punto da essere identificata, nell’immaginario collettivo, come la “Movida Madrileña”) nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, dopo la morte del “caudillo” dittatore fascista Francisco Franco (nel 1975) e il conseguente disfacimento di quaranta anni di regime franchista oscurantista e totalitario che aveva oppresso qualsiasi forma di libertà artistica e ogni opposizione alla dittatura fascista. In quel periodo storico di transizione e di ritorno verso la “democrazia”, alla fine dei Seventies (o meglio, de los Setenta) e per tutta la decade degli Ottanta, i giovani volevano recuperare il tempo perduto e, inebriati dal vento di liberazione, decisero di vivere sulla propria pelle tutto ciò che era stato proibito dal franchismo alle precedenti generazioni: la ritrovata libertà di espressione, di autodeterminazione e di azione, la tolleranza e l’accettazione del “diverso“, la voglia di sperimentare la cultura underground, le droghe, l’amore libero e liberato dagli schemi convenzionali e tradizionali, le nuove tendenze musicali, artistiche, etiche e di costume che arrivavano dall’Inghilterra e dal mondo anglofono (il punk e il post-punk britannico e la scena newyorchese) il tutto unito all’esuberanza e al ribellismo giovanile repressi per decenni, generò un’imponente ondata (definita “la nueva ola“, praticamente la declinazione spagnola della new wave) di creatività, controcultura, novità e innovazioni che abbracciarono le arti visive e grafiche (che avevano eletto Andy Warhol come nume ispiratore) la pittura, la fotografia, il disegno, il fumetto, la letteratura, il cinema (che vide sbocciare il talento dell’oggi globalmente famoso cineasta Pedro Almodóvar) il teatro, la radio, nuovi spazi creatisi in televisione (come il rivoluzionario programma musicale “La Edad de Oro“, che ospitava, sulla TV nazionale, i gruppi spagnoli e i protagonisti della nueva ola come i Parálisis Permanente del compianto Eduardo Benavente (morto a soli vent’anni in un incidente stradale) Siniestro Total, Kaka De Luxe, Polansky y el Ardor, Alaska y los Pegamoides, Loquillo y los Trogloditas, Derribos Arias, ma anche band e artisti stranieri come Lou Reed, Alan Vega, Echo and the Bunnymen, Killing Joke, Residents, Cabaret Voltaire, Johnny Thunders, Psychedelic Furs, i Gun Club e altri, che suonavano dal vivo e non in playback, e dove era permesso fumare in trasmissione e i musicisti venivano intervistati ed erano liberi di esprimersi su tutto, a ruota libera, senza censure, in un vortice di anarchia creativa fuori dagli schemi: causarono un putiferio l’ospitata dei Lords of the New Church, dove Stiv Bators si abbassò pantaloni e mutande in diretta, o Almodóvar che svelava candidamente quale fosse la sua droga preferita; ma il casus belli definitivo fu individuato nella puntata del 16 ottobre del 1984 (censurata)  nella quale furono proiettate fotografie di Robert Mapplethorpe raffiguranti umanità nuda e, soprattutto, vennero mostrate immagini di una persona crocifissa con la testa di un maiale, la finta celebrazione di una messa cattolica e una coppia nuda in una tomba. A causa di questi misfatti, considerati inaccettabili e “incostituzionali” dall’ala più reazionaria e “timorata di Dio” oltranzista della società del tempo, furono fatte interrogazioni parlamentari e fu chiesta (e ottenuta) la chiusura del programma nel 1985 (con la conduttrice, nonché agitatrice culturale della Movida, Paloma Chamorro, addirittura finita sotto inchiesta per “blasfemia” e poi assolta) la moda e, ovviamente, la musica, con il proliferare di fanzines ed etichette discografiche indipendenti. Fermento culturale, Do-It-Yourself in antitesi alle multinazionali per creare un mondo nuovo e network aperti al mondo ma che raccontassero anche quanto succedeva nelle strade e nei club, la resurrezione di un’altra Spagna, quella erede del genio di patrimoni dell’umanità come Salvador Dalí, Picasso o Miró, ma che voleva essere inclusiva e non più divisiva. Non contava essere per forza dei virtuosi o gareggiare per essere i primi della classe, ma bastava la fantasia al potere (come in una Bologna del 1977 amplificata) tigna, inventiva, spirito dadaista, nuove suggestioni surrealiste, immaginazione e la collaborazione tra varie discipline artistiche per esprimere visioni, idee e dare un senso alla propria esistenza dopo quattro decadi di grigiore e conformismo. Una esplosione di colori, suoni, disegni, concetti e immagini inizialmente partiti dal basso e poi inglobati ufficialmente in un movimento propriamente riconosciuto. Vita notturna movimentata e popolata da una rinnovata volontà di uscire, riappropriarsi delle strade e della vita socio-economica spagnola, la gioia di riaprirsi al mondo e alle modernità della cultura alternativa, trasgredire, lasciarsi andare agli eccessi dell’edonismo, dell’esibizionismo e del divertimento (ispirandosi a quanto era accaduto a Londra e in tutta la UK messa a soqquadro dai Sex Pistols e dalla rivoluzione punk rock dal 1976 in avanti, a livello musicale, etico, estetico, concettuale, di costume, di moda e di immagine) e nuovi punti di ritrovo, pub e locali come il Rock-Ola, l’ex cinema Carolina, la sala El Sol, El Penta e La Via Láctea, assurti a Mecca delle nuove scene e avanguardie. Di quella stagione di rinascimento culturale e generale, ovviamente, a noi interessa approfondire il lato musicale, più precisamente il movimento punk deflagrato con la caduta del totalitarismo fascista. E, a questo proposito, ci ha pensato la benemerita Munster Records, ormai veterana etichetta indipendente fondata dai fratelli baschi Pastor, a rimestare in quel passato e rigirare il coltello nella piaga. Sì, perché recentemente la label ha ristampato un singolo che quarant’anni fa, quando uscì nel 1983, scatenò un pandemonio per via dei suoi “contenuti espliciti”. Stiamo parlando dell’iconico 7″ “Me gusta ser una zorra” delle Vulpess (col moniker scritto con la doppia S riprodotta a mo’ di emulazione neonazi, messa lì dall’etichetta Dos Rombos Discos per provocare la società borghese benpensante e perbenista dell’epoca, che in fondo non è molto diversa da quella di oggi) all-female band basca, uno dei gruppi protagonisti della prima scena punk spagnola insieme a La Polla Records, Eskorbuto, Kortatu e La Banda Trapera del Río tra gli altri. Queste quattro cattive ragazze si divertivano a shockare l’opinione pubblica (ancora intrisa della crosta di bigottismo religioso clericofascista e ipocrita moralismo lasciati in eredità dall’ex regime franchista) già dal nome: “volpe” nello slang significa “prostituta”, e quindi irricevibili per la società “bene” anche solo a leggere di loro, delle loro “gesta” sovversive e osservare il loro modo di porsi: in pieno spirito oltraggioso punk, quattro adolescenti o poco più, tutte comprese, all’epoca, tra i 17 e 21 anni (Loles Vázquez alias «Anarkoma Zorrita» alla chitarra, Mamen alias «Evelyn Zorrita» alla voce, Begoña «Ruth Zorrita» al basso e Lupe Vázquez alias «Pigüy Zorrita» alla batteria) accomunate dal “cognome” Zorrita (alla stregua dei finti fratelli portoricani Ramones) formatesi nel 1982, nella loro breve esistenza hanno comunque lasciato il segno nel rock ‘n’ roll iberico, sull’esempio dei Sex Pistols, facendo del punk rock uno stile di vita e un ideale libertario per il quale sporcarsi concretamente le mani, suscitando indignazione e disgusto in un largo segmento di pubblico adulto con le loro provocazioni linguistiche, concettuali e di costume. Durante la loro turbolenta avventura, le nostre malas chicas arrivarono a registrare un solo singolo ufficiale, uscito sulla label Dos Rombos Discos, che fu appunto “Me gusta ser una zorra“, loro personalissima rielaborazione in chiave libertina del brano degli Stooges “I wanna be your dog“, che col testo declinato in spagnolo (col titolo che diventava: “Mi piace essere una troia“) e un linguaggio sboccato aveva sortito un effetto ancora più esplosivo e urticante (rispetto al classico di Iggy e soci) nel mainstream dell’epoca del loro Paese, appena uscito da quattro decenni di puritanesimo dogmatico, e che in una mattina di aprile del 1983 fece scoppiare uno scandalo di dimensione nazionale. A nulla, in effetti, valse l’avviso “spoiler” sulla copertina del single, che recitava: “Si avverte che le canzoni di questo disco possono ferire la sensibilità di chi ascolta“. Era infatti il 16 aprile 1983, un sabato mattina, quando ebbe luogo la tempesta perfetta. Sulla rete ammiraglia della televisione spagnola di stato, TVE (che è un po’ l’equivalente della “nostra” Raiuno) andava in onda un programma musicale intitolato “Caja de Ritmos”, condotto dal giornalista e critico musicale Carlos Tena (purtroppo venuto a mancare pochi mesi fa) già in precedenza autore del brillante format alternativo “Popgrama” che aveva sdoganato nelle case degli spagnoli la controcultura nell’arte attraverso il cinema, i fumetti e la musica (con l’arrivo del nuovo rock ‘n’ roll e della prima scena punk). Carlos, con una invidiabile dose di coraggio, in quell’episodio aprilino di “Caja de Ritmos” (era appena il secondo appuntamento) decise di rischiare e di promuovere le Vulpes e di far trasmettere il videoclip di “Me gusta ser una zorra“, quasi a ora di pranzo, quindi in piena “fascia protetta”. Come era facile prevedere, l’immaginario e le liriche scurrili evocati dal testo fecero esplodere un tumulto mediatico, venendo prese di mira dalla parte di opinione pubblica più conservatrice e moralista del Paese, avvilita, che si ritenne offesa da quello che, a loro dire, era stato uno spettacolo indecoroso offerto dalla televisione nazionale che, invece, avrebbe dovuto evitare la messa in onda di simili “oscenità”, e subito invocava la chiusura della trasmissione

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FLASH ON YOU: Nirvana-Nevermind

A ormai trentuno anni dalla sua uscita, l’iconica copertina di “Nevermind” dei Nirvana ha un valore simbolico ancora più forte rispetto a quando fu pubblicata, per la prima volta, il 24 settembre 1991.

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Flash On You: The Saints – (i’m) Stranded

The Saints – (I’m) Stranded: In questo mese ricorre un anniversario importante, perché nel febbraio del 1977 (precisamente il 21) veniva pubblicato l’esordio degli australiani Saints, “(I’m) Stranded”.

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