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Recensione : Cousteaux – Cousteaux

Ci son voluti oltre 10 anni per poter riascoltare due artisti fenomenali; essi riversano nel lavoro omonimo, una delle più belle produzioni del 2017, forte magnetismo, sensualità, struggimento e super classe. La musica è profonda, notturna, pre-invernale, pronta a catturarvi nelle sue trame provocanti di seduzione.

Cousteaux – Cousteaux

C’è un album che è sfuggito all’occhio e che registra lo splendido ritorno dei Cousteau, quelli di “The Last Good Day of the Year”, singolo che ha fatto epoca, oggi ribatezzati CousteauX. L’album scolpisce e colpisce i sensi considerevolmente, balzando sul podio come il più “romantico” e meglio interpretato album dell’anno.

Il duo formula un lavoro che non contempla cedimenti o punti deboli, odora di veridicità, di intensa vitalità adornata di sofferenza interpretativa, c’è anima in questo disco e slancio di fantasia; insieme ai loro fans, se non lo siete ancora basta avviare l’ascolto per diventarlo, si gioisce di autompiacimento, perché il disco è una nebulosa cosmica, evoca scie di polvere di stelle che risaltano fantasticamente nella notte e imprigiona.

Li ascolto spesso e volentieri, coronano la serata di densità, anche quando mi verso due dita di scotch chaser prima di sparire tra le lenzuola, lì continua a frizionare da dio, proiettanandomi su alture sconosciute ed ergendomi a signore della notte: sullo sfondo l’animato e profondo tumulto emotivo. Un disco novembrino, freddo, autunnale, lontano. Ci si destreggia tra romanticismo e decadentismo, pare un lavoro uscito dalla invernale notte viennese riscaldata dalla voce di Bowie ‘en brulé’, perché il cantante Liam McKahey non può far a meno di ricordare principalmente il timbro vocale del Duca Bianco, senza per questo risultare emulo pedissequo: s’avvisano ritratti di luoghi solitari, vie umide acciottolate, silenzi, penombre, illuminazioni decentrate, incontri sfuggevoli, donne che fumano in calze a rete e uomini succubi delle volute vaporose boccate; un mondo notturno fatto di mistero, solitudini, caffè e bar sottoscala ove scovare amori.

Il catalogo offerto è così variegato che sa di novità esecutiva e di contenuti, piena musica su cui intrigare con i propri sentimenti, agganciandoli alla drammaticità e alla riflessione, grazie alla raffinatezza delle liriche iniettata con forza, pathos e lascivia; il disco realmente amplia lo spettro emotivo con maturità creativa – grande il merito di Davey Ray Moor che oltre ad essere produttore, suona, arrangia, dirige e scrive anche i poetici testi.

Gli incastri delle combinazioni si abbandonano a grandi cantori oscuri come Scott Walker, Brian Ferry, Leonard Cohen, Richard Hawley.
Il rinnovato duo produce un’escalation vertiginosa che aumenterà la gradazione del sangue pulsante nelle vene, irrorando a puntino heart and soul.

E così ci sciroppiamo direttamente dalla botte il sofisticato elisir che è “Memory Is a Weapon”; Liam espleta le sue funzionalità vocali con l’eleganza di un crooner d’eccezione, è una tempesta di sensazioni sorrette dall’intrigante basso e dal superlativo piano. C’è malinconia, sì, ma nulla di scontato; ci si sente pesciolini in una song che irretisce, avvolge come una coperta.

“This Might Be Love” ricorda un ritmo tipo Fila Brazillia o Zero 7, gli echi di synth o tastiera fluidificano suggerendo alla voce di sciogliere la melodia… sposando un tango sincopato!

BURMA (che sta per “Be Upstairs Ready My Angel”, acronimo postale usato dai soldati britannici, durante il secondo conflitto mondiale, inviando lettere alle fidanzate) è una ballata, quasi un’elegia; decanta la voce blandendo un certo jazz pop alla Nick Cave, le aperture sgocciolano delizie dalla materia sospesa tra violini e trombe: risospinge a cascata con passionalità.

THE INNERMOST LIGHT, densa, oscura meraviglia che pesta i tasti del piano con solenne gravità, un blues sporcato di ferite al basso ventre; l’immaginifica verve notturna si impossessa del diavolo che avete dentro, le sensitive budella sono strizzate ad opera degli strumenti proprio come un giocattolo caricato a corda, e siete pronti a scaricare tutta la sofferenza accumulata dal contorcimento unendovi al cantato di Liam.
Unico pezzo scritto con l’Ex Libertines Carl Barât!

MAYBE YOU, introdotta da un pianismo à la Chopin, si staglia in umore gospel: preghiera? Invocazione? Squisitezze rare dove lo spirito si confessa al pianoforte e al basso… sfidando i Sigur Ros di ‘Hoppipolla’, Bowie, Cave e persino il Tim di ‘Song to a siren’ qui in immaginaria coppia col figlio Jeff di ‘Halleluja’ (che meraviglia!): e ci fanno lacrimare di pura bellezza angelica (amorevole revival sensazionalistico di suggestioni che vengono strappate dal lirismo ispiratissimo dei CousteauX).

PORTOBELLO SERENADE tira in ballo il Jazz notturno, si evoca il Miles del Quintet. La raffinatezza si diffonde sulla classe, forse Billie Holiday insieme a Bowie avrebbero potuto intrecciarsi su tali note… Aggiungo altro, intravedo un tocco soffuso dei Floyd lungo le spolveratine di piano, colte da THE WALL e THE DARK SIDE, più una svisata presa dalla ‘While my guitar gently weeps’, omaggio harrisoniano. Strumenti perfetti e in sintonia, sballano come un pezzo di McCoy Tyner!

In THIN RED LINES si vede Ziggy Stardust rivestire il ruolo memore estratto da ‘Moonage daydream’ prendere a calci gente, notte e sentimenti, sbaragliando un pezzo finemente rubato da Lupin III a quel disco e qui riletto… è una stragrande canzone in stile Bowie rock and roller, e si corre a ruota libera, il motore è acceso, basta solo accelerare per bruciare la strada; appare anche un nervoso Ronson che dipana il filo sino alla prossima Station. Ecco cosa accade quando la stoffa ricopre l’anima. Applausi!
P.S. L’accordo introduttivo di piano potrebbe valere tutto il pezzo per scelta azzeccatissima di sound e tempo. Burlesque/Blues/Glam. Geni!

SHELTER. Rimanda allo stile che meglio determina il duo. Contenute le energie cullate nell’orchestrazione, accorrono (Uh!) cori simil-Laurie Anderson di ‘O superman’, l’ampiezza del vocalist strugge, invece la tromba caratterizza il pezzo, contrapposta alla svisata conclusiva che splende affrancandosi da ogni presa di posizione.

SEASONS OF YOU. Gospel ballad, ricorda quei pezzi alla Hey Jude, o alla ‘Tender’ dei Blur… celebrativo che smorza (forse troppo), sebbene tendente a un sottile originale miscuglio tra i pomposi arrangiamenti bacharachiani and Soul.

F**KING IN JOY AND SORROW.
Il mood straniante portato avanti dalle lente percussioni è giusto il servire un assist alla voce, in preda alle pastoie erotiche del laccio e della nuvola.

 

TRACKLIST
1. Memory Is a Weapon
2. This Might Be Love
3. BURMA
4. The Innermost Light
5. Maybe You
6. Portobello Serenade
7. Thin Red Lines
8. Shelter
9. Seasons of You
10. F*cking in Joy and Sorrow

LINE-UP
Liam McKahey • vocal
Davey Ray Moor • multistrumentista

and many others… trumpets, double bass, strings, marimbas

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1 Comment
  • Avatar
    David
    Posted at 06:31h, 17 Novembre Rispondi

    Wonderful music, wonderful group!

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