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Recensione : Bogue – How’d you feel about talkin’ to me

In questo marasma elettrico ed elettrizzante, per un brevissimo lasso di tempo, bazzicò anche un trio chiamato Bogue, formato nel 1999 dal bassista Dan Maister (che assunse il ruolo di frontman/chitarrista) insieme al batterista Matt Blake, ai quali si unì il chitarrista Michael J. Walker.

Detroit, sul finire del Novecento e gli inizi del nuovo millennio, ha visto germogliare e svilupparsi una scena musicale così viva e vibrante (con un nutrito stuolo di band che mischiavano garage rock revival, punk, rock ‘n’ roll, blues, R&B e soul) da essere paragonata alla Seattle del boom del “grunge” e alternative rock del decennio precedente. Forte di una tradizione già importante in fatto di R’N’R incendiario (Stooges e MC5 segnarono la nascita di parte del famigerato “Detroit sound” che, su larga scala, inglobava anche la Motown e, successivamente, una fervente scena techno) la città del Michigan, roccaforte dell’industria automobilistica statunitense, fece da humus culturale in cui crebbe un movimento – sospinto dalle attività artistiche nell’hub culturale del Cass Corridor, dai concerti in piccoli club, musicisti/producer come Jim Diamond e i suoi Ghetto recorders studio, e da label agitatrici culturali come la Sympathy for the record industry e Get Hip recordings col loro lavoro di divulgazione su scala nazionale – l’ultimo degno di nota a cavallo tra la fine del mondo analogico e l’avvento totalizzante della rivoluzione digitale, in cui esplosero i White Stripes e si affermarono i Dirtbombs (fondati da Mick Collins, già nei seminali Gories) gli Hentchmen, i Bantam Rooster, i Detroit Cobras, i Von Bondies, i Go, Freddy Fortune e i suoi progetti, Demolition Doll Rods, i Paybacks, i Sights, i Come Ons, le Slumber Party, i Witches, i Waxwings, Outrageous Cherry, i Clone Defects, i Soledad Brothers (il cui batterista Ben Swank ha co-fondato la nota Third Man Records insieme a Jack White) e altri ensemble.

In questo marasma elettrico ed elettrizzante, per un brevissimo lasso di tempo, bazzicò anche un trio chiamato Bogue, formato nel 1999 dal bassista Dan Maister (che assunse il ruolo di frontman/chitarrista) insieme al batterista Matt Blake, ai quali si unì il chitarrista Michael J. Walker. Reduci da esperienze nell’underground locale (P.W. Long’s Reelfoot, Gravitar) e ispirati dal sound dei Laughing Hyenas – che erano di stanza nella vicina Ann Arbor – i nostri, outsiders e senza un dollaro in tasca, sulla scorta di una gavetta fatta di concerti adrenalinici, riuscirono a mettere su nastro, nel 2002, un demo con una manciata di canzoni, in soli due giorni di sessions ai summenzionati Ghetto recorders grazie alla concessione di Jim Diamond, registrazioni che non trovarono mai forma compiuta in un album di debutto perché l’avventura della band, poco tempo dopo, era finita (e c’era anche stato un cambio in line up, con l’abbandono di Walker e l’arrivo di un altro batterista, Bill Hafer) segnata da lotte intestine, divergenze creative e pericolose dipendenze, e quelle incisioni sono rimaste inedite fino a oggi (nel frattempo, Dan Maister si era purtroppo tolto la vita nel 2005, e anche Matt Blake ha lasciato questo mondo nel 2008 a causa di un infarto).

Quest’anno, quei pezzi (rimasterizzati dallo stesso Jim Diamond) hanno finalmente visto la luce grazie all’operazione di recupero portata avanti da Walker, che li ha raccolti nell’Lp riassuntivo “How’d you feel about talkin’ to me” – uscito su Chaputa! Records – che contiene quattordici brani dal sound rovente, tagliente e sanguigno, spontaneo, non costruito a tavolino, figlio del caos e dell’urgenza della giovinezza che brucia tutto in fretta, dove influenze variegate (dagli Stones e i Meters ai succitati Laughing Hyenas corretto Mudhoney in “Insult to the heart” e “Wrack & ruin“, da Bo Diddley al punk-blues di Jon Spencer in “Succubus” e “Unscroll the hurt” a Otis Redding, dagli Stooges ai Gories, ai Gun Club schizzati e accelerati di “Sticky“) entravano in conflitto per generare un pirotecnico vulcano spurio, sorretto da parti vocali inquiete e sguaiate che, in diversi episodi (la title track, “Butternut, pt. 2“, “Jig“, “Baby, hold on“, “Congolene“, “You’ve got to change that (you really, really do)“, “Nobody’s fault but mine“, “Ladyfriend“) ricordavano da vicino quelle del loro concittadino Jack White.

Alla fine di questo viaggio nel tempo, che ha più di vent’anni sul groppone, una conclusione che si può trarre è: che band grandiosa avrebbero potuto essere i Bogue. Giusto rendere pubbliche queste registrazioni, anche per una forma di rispetto e riconoscenza verso i membri che non ci sono più, bene ha fatto Walker a restituirci l’energia dinamitarda che viene sprigionata dai solchi di questo disco (e nel conclusivo blues strascicato di “I’ll regret this” c’è dentro tutto il malinconico rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato). Meglio tardi che mai.

Una risposta

  1. Grazie di cuore! Sapere che il disco sta raggiungendo nuove persone in tutto il mondo significa più di quanto riesca a esprimere a parole.

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