Tornano a pubblicare nuovo materiale gli inglesi indie/alternative/shoegazers Swervedriver, una tra le band che, tra la fine degli Eighties e gli inizi dei Nineties, hanno contribuito a forgiare lo sviluppo dell’indie rock britannico virato shoegaze (insieme a Jesus and Mary Chain, My Boody Valentine, Ride, Slowdive, Loop, Chapterhouse, Lush, Telescopes, Pale Saints e altri ensemble meno noti/celebrati) e che negli anni Novanta ha pubblicato quattro Lp e numerosi Ep e singoli, prima dello scioglimento avvenuto agli sgoccioli del secolo/millennio scorso. Il gruppo, dopo essersi ricongiunto nel 2008, ha suggellato la sua reunion facendo uscire, nel 2015, il suo quinto studio album, seguito da un sesto, “Future ruins“, nel 2019, che ad oggi resta l’ultimo full length dei nostri (che l’anno scorso avevano dato alle stampe la compilation “Doremi Faso Latido“).
All’inizio di questo mese, il quartetto originario di Oxford (composto da Adam Franklin alla chitarra e voce, Jimmy Hartridge alla chitarra, Mikey Jones alla batteria e Mick Quinn al basso) ha rilasciato – tramite la label newyorchese Outer Battery Records, un Ep, “The world’s fair“, contenente quattro brani, di cui due registrati in Inghilterra insieme a Mark Gardener e due ad Atlanta, negli States. Un formato, quello dell’extended play, che ha sempre affascinato il membro fondatore Franklin, che ha sempre avuto una passione per i singoli e le B-sides, e ha voluto ricreare, insieme ai suoi compagni di band, l’atmosfera dei primi singoli ed Ep usciti per la mitica Creation Records, quando si proponeva musica senza l’obbligo di dover prendere una direzione precisa, e ogni pezzo poteva essere un piccolo esperimento.
Melodia e rumore quindi, come nella migliore tradizione indie/gaze. L’opener “Pack yr vision” è impregnata di atmosfere dreamy, mentre “Volume control” aumenta i giri del motore, conferendo al brano carburante garage rock acquistato presso stazioni di servizio a marchio ispirazionale 13th Floor Elevators. La title track bagna le sue carni soniche in acque psych/gaze con venature post-rock, e la conclusiva “Time attacks” affoga melodie power pop sotto strati di distorsioni e riverberi.
Quindici minuti che possono rappresentare sia una buona introduzione agli Swervedriver per i neofiti del gruppo, sia un altro tassello per gli estimatori da aggiungere al mosaico di una storia che suona ancora genuina e non puzza (o almeno, non sembra farlo in maniera evidente, e non sembra il loro caso) di cinica nostalgia Nineties con tanto di reunion per un ultimo “cash-in” prima della pensione, in questi tempi moderni in cui il sottogenere shoegaze sta godendo di una inaspettata nuova popolarità grazie (o a causa?) di algoritmi e contenuti sonori che diventano “virali” sui social network, ma quando il talento resta integro per decenni, non c’è moda che tenga e bisogna solo riconoscere merito e qualità al combo oxoniano. Never lose that feeling.