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Recensione : Cesare Basile – Nivura spoken

Più volte rimandato nella sua uscita, quest’anno viene finalmente pubblicato su ViceVersa records – a un anno di distanza da “Saracena“, il suo ultimo full length in ordine di tempo – “Nivura spoken“, un album concepito dal cantautore e musicista Cesare Basile durante la pandemia sanitaria del covid-19, lontano dagli ormai consueti lidi folk/blues imbevuti di atmosfere mediterranee a tutto tondo, ma ricolmo di sonorità elettro-acustiche-sintetiche cupe tendenti verso certo post-punk aspro e sbilenco e l’industrial, un universo sonico concettualmente disturbante, stordente e alienato, pensato per essere una sorta di ideale rappresentazione musicale del folle periodo in cui l’opera è stata composta (tra lockdown sanitari a livello globale e le conseguenti politche securitarie restrittive e liberticide imposte dai “piani alti”). Ma, col senno di poi, si può dire che siano suoni non del tutto estranei alla voglia di lanciarsi in nuove sfide del nostro, che nello stesso periodo pandemico del 2020 si era già cimentato con un altro disco sperimentale dallo spirito affine, “Pulicane tape“.

Nivura spoken” presenta sette brani in cui il menestrello siciliano non si pone(va) limiti, e nei quali, a parte l’iniziale strumentale “Nivura“, ha lasciato il cantato per affidare il microfono a sei differenti artiste e protagoniste femminili che, con le loro interpretazioni, hanno conferito all’Lp un mood di eterogenea e straniante e claustrofobia. RitaLilithOberti presta la sua ugola per una rielaborazione completamente stravolta di “Sympathy for the devil” degli Stones, ma riletta e riarrangiata in dialetto ligure, che diventa “U me zogu cor diavu“. In “Nisun al da na vos” troviamo SaraDagger Moth” Ardizzoni a distorcere la sua voce (tra sinistri tribalismi sonori) per rileggere testi di Byron tradotti in dialetto ferrarese. In “Cosmo” viene ospitata la nota Nada Malanima (una artista che, nel corso dei decenni, ha saputo reinventare totalmente la sua parabola artistica, allontanandosi dai comodi percorsi mainstream pop all’italiana per abbracciare nuovi orizzonti e percorrere sentieri inconsueti) e “Aremu rindinedda” si avvale della collaborazione della producer e artista di elettronica ibrida Vera Di Lecce che trasforma il testo di un traditional di pizzica salentina in un allucinato caleidoscopio trip hop. “Frustration” si ricollega idealmente, in qualche modo, a “Saracena”, in quanto accoglie una cantante/rapper palestinese (ed ex profuga della Striscia di Gaza, a proposito di drammatica contemporaneità delle tragedie odierne, con un genocidio etnico che si sta consumando in tempo reale, e in “diretta streaming”, dall’altra parte del mar Mediterraneo, mentre il cosiddetto mondo occidentale civilizzato, libero, democratico ed evoluto gira lo sguardo dall’altro lato e fa finta di non vedere, anzi ne foraggia i carnefici israeliani) Sarah ElkahlOut, che recita un suo testo, mentre la conclusiva “Nchiaccatu” è un incubo distopico che riprende, attraverso la voce dell’attrice Valentina Lupica, un testo del compianto drammaturgo/attore/regista siciliano Franco Scaldati.

“Nivura spoken” è un laboratorio alchemico in continua evoluzione, dove Basile si muove senza pregiudizi né imponendo steccati su un genere musicale ben definito, mischiando le carte, fondendo spiritualità poetica e venature dark/noir (e in effetti “nivura”, in dialetto siculo significa nera) retaggio del suo periodo giovanile berlinese, in cui il blues viene trasfigurato da sonorità industriali e le radici ancestrali locali si intrecciano con l’agire globale delle contaminazioni col mondo (in particolare mediorentale e arabeggiante) e la tradizione della parola evocata come valore simbolico (“spoken”) e del racconto orale ne esce rafforzata. La resistenza culturale a questi tempi di ottuso oscurantismo guerrafondaio passa anche attraverso questi solchi.

Nivura

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