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Recensione : Sull’ombra Dell’addio Parte Seconda

Sull’ombra Dell’addio Parte Seconda

> Prima puntata

II

“Quindi si è ucciso”

Nella sala luminosa si respirava un’atmosfera da grande famiglia, o almeno questa era l’idea. Lorenzo e Gaia, Sergio Bruckner, i coniugi Schmidt, la famiglia Anselmi: tutti seduti attorno al tavolo. Mancava soltanto quel Giacomo De Rienzo che giocava a fare il misterioso e che era uscito all’alba per respirare l’odore della rugiada.

La moglie del signor Bruckner, Anne, s’affaccendava a riempire i piatti. I suoi passetti rapidi accompagnavano il tintinnio delle posate. Anne era una donna grassoccia il cui corpo teneva questo mistero, che mentre da davanti non c’erano dubbi sulla sua pinguedine, da dietro appariva quasi slanciata; la schiena sinuosa la caricava d’aspettative, ma quando si voltava insieme al ventre gonfio trascinava con sé un alito di delusione.

“Non so se questo è l’argomento giusto”, si lamentò senza vera decisione la signora Anselmi: “Marco ha solo cinque anni…”

Il marito anticipò il signor Bruckner:

“Oh, Luisa, ma guardalo, ha così fame che gli interessa soltanto quello che ha davanti”

In effetti, il piccolo Marco si avventava sulla propria bistecca torturando ogni singolo boccone prima di ingoiarlo. La sua mente di bambino navigava nel piatto.

Il signor Bruckner si sentì libero di proseguire. Sedeva a capotavola e il ruolo di padrone di casa lo inorgogliva.

“Si è impiccato nella rimessa degli attrezzi. Proprio lui, Attilio, quel pezzo di pane! Si svegliava tutte le mattine al sorgere del sole, anzi prima, quando ancora era buio, e scendeva nei campi. Erano il suo grande amore, quei campi. Povero Attilio… E il suo cane! Ieri ha abbaiato tutta la notte, l’avrete sentito, no?”

Le occhiaie sui volti dei coniugi Schmidt parlavano chiaro.

“Se era triste, lo nascondeva bene”, e fece una pausa per caricare di aspettative la massima che stava per pronunciare. Quando fu sicuro che tutti stessero ascoltando, esclamò: “Ah, ma perché le persone devono fare di simili pazzie?”

Lorenzo intuì che Gaia, seduta accanto a lui, fremeva.

“Forse era malato”, azzardò lo Schmidt, un vecchietto che ogni anno, ad ottobre, abbandonava Amburgo per scendere con la moglie in Valtellina. Il suo italiano era ottimo e impreziosito da un simpatico accento teutonico.

“Già, o forse gli affari andavano male”, suggerì Anne Bruckner mentre sparecchiava.

Lorenzo si portò le mani agli occhi per sottolineare la sua estraneità a quello che sarebbe successo. Era inevitabile, e difatti successe.

“O forse,” si intromise Gaia: “Forse si era semplicemente stancato”

Sergio Bruckner sorrise di quel sorriso che si tende a rivolgere ai bambini quando dicono un’ingenuità: “Ma come, e di cosa?”

“Di tutto, è chiaro. Ci deve essere poi questo gran motivo per decidere di uccidersi?”

La vocina di Marco spaccò la tavola: “Chi si è ucciso?”

La madre corse subito ai ripari; fu curioso notare come potesse cambiare la sua voce dal rassicurante: “Nessuno, amore, nessuno” al rabbioso, sebbene tra i denti: “Ti sembra il caso di dire, o anche solo pensare certe cose?”

Lorenzo disse piano, in modo che solo lei sentisse: “Gaia, chiedi scusa e usciamo”

“No”, rispose lei in tono molto infantile. Le sue labbra rosse – quant’erano rosse quella mattina! – tremavano.

“Chiedi scusa e usciamo”, le ripeté il giovane.

Allora lei lo accontentò:

“Scusate”, concesse a capo chino. Alzatasi dalla sedia, tuttavia, ci ripensò: “Scusate se per alcuni è più difficile di altri”, ma ormai nessuno l’ascoltava più. Gli Anselmi accerchiavano il figlio torturandogli le guance, i Bruckner sparecchiavano con foga esagerata; soltanto il signor Schmidt parve cogliere quelle parole. Ne apparve turbato, tanto che dovette risedersi e abbandonare il bastone di legno su cui s’era arrampicato. Lorenzo provò dolore sia per lui che per sé stesso che per Gaia, quindi seguì la scia di malumore che la ragazza aveva spinto fin sotto il castagno. La valle era colma di sole, perché discutere? Si limitarono a guardarsi.

 

In cucina era intenso l’odore di zucca. Anne cucinava di già, l’aiutava a distrarsi. Puliva le verdure con calma, impastava, annusava ogni singola mela prima di tagliarle in dadini perfetti. La sua vita procedeva così, tra gli aromi della natura: non perché gioisse di quell’affettare, di quell’odorare, ma perché l’allontanava dall’esistenza piatta, dal marito. E proprio il marito la assillava, ora, violando il suo tempio di frutta e verdura.

“Quella ragazza è proprio triste”, ragionava.

Pur ignorandolo, Anne ne poteva indovinare l’espressione corrucciata, le sopracciglia folte ritorte all’ingiù; cambiò idea, diede un rapido sguardo: ebbe la sua conferma, tornò alle mele.

“E’ talmente triste che non pensa a quello che dice”

Parlava col tono sofferto degli accattoni.

“Alcune cose è meglio tacerle, se non altro per evitare certe figure. E coi bambini, ma che le è preso? Ci pensi, tu, a parlare della morte con una simile leggerezza? Certo, tu no: sei sempre così ragionevole”, ed era proprio fiero mentre rifletteva a quel modo della moglie. La considerava pacata, intelligente; e se ora il fuoco s’era assopito, perché non premiare quell’assennatezza? Ormai la bellezza era sfumata, ma ne rimanevano ovunque le tracce come brandelli di ricordi adagiati stancamente in un angolo di cervello: una patina di polvere difficile da rimuovere.

Sergio Bruckner si avvicinò alla moglie che ancora tagliava le mele. Le comparve dietro, all’improvviso, mosso da un desiderio affettuoso. Le tastò il sedere ancora sodo, appena  abbondante, e le sussurrò all’orecchio poche parole insensate. Anne teneva in mano il coltello. Quando si sentì toccare, poco ci mancò che si girasse con la lama tesa, pronta a tutto. Rimase invece al suo posto, inerte, mentre il marito seguitava nel suo folle farneticare e non la smetteva di agitare le dita su di lei, quasi stesse suonando un pianoforte per la prima volta. La baciò sul collo, ma erano i baci di uno sconosciuto, uno di quelli brutti. Ora il marito grufolava tutto preso nella ricerca di un passato che era svanito insieme alle prime primavere, ai primi autunni splendidi di una Valtellina di molti anni addietro; grufolava cercando di contagiare la moglie con la stessa eccitazione: ma era esclusivamente sua quella nostalgia, suo l’affetto l’esploso d’un colpo. Anne lasciò che una mano estranea le strizzasse i seni pesanti; non provò piacere, soltanto vergogna. Quando la stessa mano scivolò sul suo ventre gonfio e proseguì, non ce la fece più: afferrò una mela e la scaraventò per terra. Quella esplose con un tonfo morbido, schizzando polpa bianca sulle loro scarpe. Sergio si allontanò con un balzo:

“Che fai?”, urlò. Per lui, la moglie significava serenità e posatezza: solo questo, e le sue mani di cuoca.

Anne si limitò a stringersi il petto con le braccia. Avrebbe voluto nascondersi tutta, tra quelle braccia.

“Scemo, scemo”, si sfogò: “Scemo!”

Corse via, lasciò il marito attonito nella cucina che odorava di zucca. Raggiunse la cameretta: suo figlio era nel lettino, dormiva beato. Prese quell’esserino minuscolo e se lo strinse al seno. Lui si svegliò e cominciò a strillare; non le importava: l’unica cosa che le interessava era tenerselo stretto, aggrapparsi a quel corpicino.

“Cosa ha combinato, la mamma”, gli confessò: “Non fare come me. Ragiona, prima di fare scelte per la vita”

Il pianto del bambino era una risposta sufficiente. A lui, per ora, interessava dormire: aveva innanzitutto scelto così.

 

Gaia e Lorenzo camminavano tra i meleti. I frutti migliori erano stati colti e piccoli pomi acerbi pendevano dagli alberi, violacei. Comunque, addentarli era tutta una delizia.

Rasentarono un muretto a secco: Gaia vi si sedette e fece andare le gambe. Le pietre, quando i talloni vi sbattevano contro, suonavano sommessamente. Lorenzo appoggiò i gomiti su quelle gambe, non gli serviva altro.

Il momento era propizio: “Chiudi gli occhi”

“Non ho voglia di chiudere gli occhi”, rispose lei.

Lui non sospirò neanche, lo immaginava.

“Te lo chiedo per favore”

Gaia spense le palpebre. Subito, il profumo delle mele le inondò le narici. Si stava già pentendo di quella concessione quando qualcosa le cadde sulla testa.

“Eccoti”

Aprendo gli occhi, la ragazza vide Lorenzo sorridere. Le piccole mani raccolsero un copricapo morbido e rosso.

“E questo?”

“A Parigi ho avuto una visione. Te ne ho comprato uno, per realizzarla”

Questa volta Gaia non urlò, né pianse, né fece niente di esagerato. Scelse la normalità e il buon senso, e disse solo:

“Sono contenta di averti aiutato”

Quando si riaggiustò il cappello sul capo, ci sembrò nata dentro. Con tutta quell’erba, poi, c’erano il verde, il biondo dei capelli e quella macchia rossa come le mele che parevano un quadro.

“Quanto sei sentimentale, però”, scherzò lei.

“Ti ho solo vista mentre lo indossavi, nient’altro”, e c’era da credergli.

“E ci camminavo bene, per le vie di Parigi?”

“Praticamente, eri la più francese tra tutte”

Gaia ne fu soddisfatta. Con un balzo scese dal muretto e prese a roteare. Quel cappello l’aveva resa felice, in fondo era vanitosa. Lorenzo poi… Lorenzo era estasiato. Si sedette sul muretto, lì dove la ragazza aveva lasciato un’impronta del suo passato recente, e nutrì gli occhi di quelle giravolte, dei capelli biondi sui meleti, dell’aria di montagna che cominciava a inspessirsi. S’alzava il vento. Le foglie tremavano tutte, l’erba s’increspava. Il cielo da immobile cominciò a ondeggiare; nuvole stracce comparvero chissà da dove: si rincorrevano nello spazio che andava scurendosi. I monti, laggiù, erano sul punto di prendere il volo; gli alberi sul pendio si piegavano, scuotevano le chiome come se desiderassero liberarsi delle radici per fuggire insieme alle nubi.

Più il vento soffiava e maggiore era la foga di Gaia nel volteggiare: sembrava che quel turbinio fosse nato da lei.

“Presto, torniamo in hotel”, urlò Lorenzo per sovrastare la profonda voce della bufera. Il suo grido fu spinto lontano, andò perduto. La prese allora per mano, e lei, sempre danzando, si fece guidare. Cominciarono a scendere le gocce, ma poche, e la natura si tinse di grigio. Quando rientrarono in albergo, neppure s’erano bagnati.

Il letto li accolse. Questa volta non ci furono incomprensioni né ripensamenti: fece tutto Gaia e Lorenzo non poté che esserne contento.

 

“Allora, Parigi”

“Che vuoi sapere?”

“Insomma… Com’era”

“Bella, davvero”

“Bella come?”

“Affascinante, ecco. Il fascino di Roma, delle città che sono state padrone del mondo”

Essere un turista riempiva Lorenzo di vergogna. Visitava le città con un approccio particolare: sentimentale, quasi. Innanzitutto, viaggiava sempre da solo; ciò, secondo lui, lo faceva sentire meno invasivo, meno d’impiccio. Aveva questa teoria che le città fossero come circoli privati, nei quali un nuovo membro è ben accetto ma il presentarsi in tanti rappresenta sempre una forma di scortesia. Viveva poi una sorta di nostalgia, avvicinandosi ad esse non come uno straniero, bensì come un adulto che torna nei luoghi della sua infanzia. Cercava di imitare le abitudini dei cittadini, i loro ritmi, finanche i capricci. Era consapevole che fosse tutta una posa – l’immagine che si costruiva delle città si basava sulla letteratura di epoche passate, sui luoghi comuni che trovava sfogliando le guide turistiche – ma non poteva farne a meno; soltanto così riusciva a convivere con l’avvilente condizione di estraneo.

“Vedi… Ho dormito in ostello… A Monmarte, sai”, cominciò a raccontare con una voce bassa, biascicata, come davanti al confessore.

“A due passi dal Sacro Cuore, stavo. Ogni sera, al tramonto, salivo la scalinata e mi sedevo in cima, tra i suonatori di violino, gli ambulanti, gli innamorati. Una vista…”, e spalancò gli occhi sulla parete, quasi i boulevard, i palazzi scintillanti fossero lì, incisi nel legno.

“Non fraintendermi… niente romanticismi, sia chiaro. Quei tetti, quell’orizzonte giallo… Era bello, era soltanto bello. Un panorama che non ha bisogno di altri aggettivi. Romantico… puah! Che significa, poi? Ne avevano tutti pieni la bocca, di quella parola”

Gaia ascoltava. Rannicchiata sotto le lenzuola, formava una collina bianca al centro del materasso: che s’alzava, s’abbassava…

Lei non poteva sapere. A Parigi, i tramonti s’arrossavano esattamente come le sue labbra quando dava di matto, con la stessa feroce sveltezza; il buio calava, dai comignoli vaporavano le domestiche dolcezze dei salotti francesi mentre ogni fibra del corpo di Lorenzo s’accendeva nella luce dei lampioni, bruciava nel ricordo della follia di Gaia. Si era rifiutata di partire? Tanto meglio… D’altronde, non era ciò che il dottore aveva suggerito? La città l’avrebbe stressata. Lo stress! il grande male del nostro secolo! Eppure, il tramonto lungo della capitale francese, le contadine di Millet, l’ombra degli alberi sul Canal Saint Martin, gli splendidi visi delle donne francesi… le mille cose che avrebbe voluto condividere coi suoi occhi febbrili.

“Romantico… puah!”, ripeté soltanto.

Il vento s’era abbattuto: oltre la finestra, bruno e ferrigno, un paesaggio stagnante.

Quando Lorenzo si voltò, il lenzuolo giaceva disfatto sul pavimento e Gaia stirava le braccia alla ricerca del soffitto, completamente nuda. Quant’era pazza, quant’era bella!

Lui giocò a fare l’indifferente: “Rivestiti, usciamo”

“Prima devo toccare il soffitto”. Ansimava.

“Non ce la puoi fare, è troppo in alto”

La ragazza prese allora a saltare e ad ansimare di più.

“Vieni qui, dammi una mano!”, lo pregò.

Lorenzo cedette. Le strinse i fianchi con le dita e, immaginando di sollevare un bambino, gli occhi ben chiusi perché era proprio vicina, le diede lo slancio. Un colpo sordo, le grida di giubilo: in fondo era ciò che la rendeva felice.

Quindi poterono uscire.

 

Camminarono a lungo, due ombre grigie per il mondo grigio. Attraversarono paesi, campi, altri paesi. Nei giardini quadrati e nelle case di legno scoprirono la religiosità calma dei villaggi montani. Pochi altri fantasmi si muovevano con loro: le anime sole degli annoiati. Quando le gambe divennero rigide, riposarono al tavolino di un bar.

Dentro, urlavano le voci degli alcolizzati.

“Io bevo quello che prendi tu”, e Lorenzo scelse per entrambi.

Lei fumava e beveva, lui beveva soltanto. Conversarono molto di cose leggere. All’interno del bar la discussione infiammava: chi avrebbe preso la donna Matilde. Poiché quelli parlavano con un forte accento lombardo, i due giovani capirono poco. C’era un’unica certezza: donna Matilde aveva queste due grosse poppe a palla. Per i montanari, capirono, era una dote importante.

“E io”, chiese Gaia, che aveva bevuto: “E io, come ce le ho?”

Lorenzo navigava anch’esso sulle acque dell’ebbrezza, stava per prendere il largo; rispose:

“Di certo, non a palla”

E lei: “Se non a palla, allora come?”, e insisteva: “Sono brutte, quindi?”

“Brutte? No! Diciamo a palloncino”

Ma non le bastava:

“A palloncino? Di quelli gonfi o di quelli flosci, che paiono melanzane?

“Ah, Gaia!”, e pronunciando il suo nome la poesia lo travolse: “Le tue sono poppe da concorso, da primo premio! Le tue, sono i satelliti che mancano a Venere! Di più! Le tue sono l’alfa e l’omega delle poppe, le racchiudono tutte!”

Gaia rise: un suono raro, prezioso. Lorenzo si lasciò travolgere dalla squillante limpidezza di quella risata, ci si tuffò dentro e cercò di smarrirsi… Ma come dimenticare la nebbia nel fondo degli occhi nocciola? Gaia conciliava l’ascesa e il precipizio: nulla più lo avrebbe persuaso a salire troppo in alto.

Corse a saldare il conto. Il barista, un anziano tutto mandibola che aveva appena scomodato anche le gambe di donna Matilda – “Perché chi è per il petto, chi per la coscia! – si dimostrò il più ubriaco: fece male i calcoli e allungò una banconota di troppo. Senza fiatare, Lorenzo tornò da Gaia.

Ripresero a camminare. Adesso il vento soffiava a ondate; gli alberi stavano indecisi: si drizzavano sull’attenti, piegavano i rami, tornavano su, belli rigidi e anchilosati.

“Tagliamo per i campi”, suggerì Gaia.

Così fecero. L’oscurità era tale che continuavano a incespicare. Non si vedeva nulla perché il cielo era un tavolone d’ardesia; anzi, là, una ditata unta di luna. Lo spicchio che brillava era talmente sottile che Lorenzo si chiese se qualcuno li stesse osservando da uno spioncino.

“Ci hai mai pensato?”

“A cosa?”

Gaia soffiò nella notte intavolando l’aria di una coperta di vapore, poi ci versò sopra una teoria:

“Che la luna è una bestia solitaria, mentre il sole… sembrano in tanti”

Lorenzo non c’aveva mai riflettuto, e rispose che sì, in effetti poteva avere ragione: giusto per farla felice.

Il silenzio, intanto, si riempì del brontolio dell’acqua. Di fronte a loro si parò l’Adda. Neppure di notte, riposava. Un cornicione di terra li separava dal fiume; così, al buio, pareva una voragine.

“E’ un bel salto da quassù”, commentò Lorenzo.

Immaginò di buttarsi di sotto. Vide il suo corpo trascinato dalla corrente, alla deriva; lo vide sbattere sugli scogli, lacerarsi sui banchi di sabbia, disfarsi nel liquido nero sino a scomparire. Retrocedette d’un passo per zittire il richiamo dell’acqua.

Accanto a lui, Gaia stava muta e paralizzata: conoscendola s’era gettata anche lei. Le prese la mano. Non sei sola, voleva dirle stringendola, siamo qui in due e abbiamo entrambi motivi di lamentarci: di cosa, chissà.

Un’ombra tra gli alberi, sull’altro lato del fiume. Accostava la voragine con passo marziale: possedeva un’energia, una forza d’animo che le piante d’intorno si ritiravano indietro, gli facevano spazio. L’uomo allungò il collo sul baratro, e Lorenzo lo stesso, che magari il fiume era cambiato:  se era nero e profondo! Eppure, l’ombra rimase lì sul ciglione, appesa soltanto alla sua volontà.

“Ma guardalo,” disse Lorenzo a bassa voce: “E’ quel Giacomo De Rienzo che se ne sta sempre solo! Che dobbiamo fare, lo chiamiamo? Quello si butta!”

Gaia taceva, ma i suoi occhi rispondevano per lei: “E lascia che si butti”

Il De Rienzo indugiava; tuttavia, anche nel dubbio, manteneva sempre una propria dignità. Un omaccione, era, un corpo da lottatore lungo due metri e passa. Gli riusciva curioso, a Lorenzo, immaginare quel corpo di toro volare: certo avrebbe sollevato un bello schizzo.

“Gaia, che si fa? S’ammazza!”

“No che non s’ammazza”, ed era sicura nel dirlo. “Non s’ammazza perché qualcun altro l’ha già fatto al posto suo. Due sere fa, allora sì che si sarebbe buttato. Ma ora, che senso avrebbe?”

E in effetti successe proprio così. L’ombra protese il collo un’ultima volta: guardava giù, nel fondo, come volesse cercare le motivazioni tra i ciottoli scuri. Non dovette pescarne nemmeno una, perché con un balzo abbandonò il ciglione e sparì tra gli alberi, più rapido della corrente che l’aveva salvato.

“E pensare che il mondo sarebbe stato lo stesso”

Ogni altra parola suonava vuota. Gaia aveva già detto tutto.

 

La rimessa la trovarono uguale alla notte precedente. S’alzava dall’erba, immusonita, e livido era il suo corpo di legno.

“Toh, c’è ancora la lampada”, sussurrò Gaia.

L’accese diffondendo nella squallida stanza una luce pallida. Poche cose vennero illuminate e quelle poche si rivelavano malate e febbricitanti: le pareti che sbiadivano negli angoli brulicanti d’insetti, un tavolo di legno tarlato, una zappa arrugginita; nient’altro: i vecchi amici di Attilio, il contadino.

Poiché Lorenzo provava pietà maggiore per le cose che per gli esseri viventi, o almeno questa era la sua convinzione, s’avvicinò alla zappa. La sollevò con amore, percorrendone con le dite il manico impolverato.

“E’ una buona zappa”, commentò.

Gaia, per una volta, si dimostrò la più razionale: “E’ solo una zappa!”, disse.

Eppure non ci fu verso di togliergliela dalle mani.

“Guarda là!”

Gaia corse in un angolo e raccolse dalla penombra una bottiglia dal vetro scuro.

“Questo è vino”

Lo stapparono e successe quel che successe. Le ore si rincorrevano e i due giovani bevevano, ed ogni volta che la bottiglia passava di mano più i loro sorrisi si facevano larghi, più si sentivano amati, e amavano. Riuscirono a parlare di tutto, e Gaia, gli occhi folli, le labbra rosse, sfiorò quasi i sentimenti spalancando per un attimo la porta blindata della sua anima: ne uscì appena uno spiffero, ma Lorenzo ne fu travolto come da un monsone. L’amava proprio, quella pazza: ma non lo disse. Si lasciò giusto scappare un: “Se tu non ci fossi…”, e cosa voleva dire, con quelle parole: un mondo! Fortunatamente, l’ipotesi sbiadì in un angolo della rimessa insieme alla luce.

Quando trovarono il coraggio di alzarsi, sorpresero l’alba. Schiariva, ma come questo succedesse rimaneva un mistero. Pareva che il chiarore fosse in tutte le cose e queste avessero deciso d’un tratto di rivelarlo. I monti chiudevano la valle dolcemente, quasi con affetto. Tuttavia, Gaia non ne poteva già più. Rimpiangeva il mare e il sole che aveva imparato a conoscere, quello che segna l’inizio e il termine della giornata e senza di lui non se ne fa nulla, piuttosto non si vive.

“Siamo animali di mare”, prese a farneticare: “Noi due, animali di mare che altrove sentono mancare il respiro. Quelle onde sono tutto ciò che abbiamo, e non possiamo dimenticarle mai, mai. Potessimo fuggire… Ma boccheggiamo, sbattiamo le pinne sulla sabbia e i nostri occhi seccano sino a cadere”

Quindi, con uno schiocco di dita, cambiò il modo di percepire il mondo. I campi sparirono, i meleti s’inabissarono, l’Adda prese a tracimare e a riempire la valle. Di fronte a lei si spalancò il Mediterraneo.

“La vedi, laggiù? E’ la linea sfumata dell’orizzonte… E quelle barche, le vedi? I fari appesi sbavano sull’acqua altrettante strisce dorate. Sembrano traghetti per andare di là… I colori!”

Lorenzo l’ascoltava assorto, ma l’odore dell’erba era troppo invadente per vedere il mare dove non c’era. Se ne dispiacque perché la sua sanità, alle volte, quando si misurava con le visioni di Gaia, lo soffocava. Nella sua normalità, tutto ciò che lo circondava era regolato dalle leggi naturali dello spazio-tempo, dal buonsenso del cervello umano. Lo sguardo di lei, invece, spaziava realmente altrove: gli occhi nocciola riflettevano spruzzi d’acquamarina.

Chissà perché, la prese tra le braccia e cominciò ad avanzare attraverso i campi infradiciati. Finché lui non cedette, continuarono a quel modo: Lorenzo faticando, tra i monti della Valtellina, Gaia leggera, veleggiando sulle acque della sua malattia, verso l’orizzonte sfumato e distante.

 

> Prima puntata

Illustrazione di Enrico Mazzone

 

 

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