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Recensione : Rita Tekeyan – Green Line – 2021

Rita Tekeyan “Green Line” [Seahorse Rec. 2021]- Sono passati sei anni dal suo debutto discografico, quel “Manifesto AntiWar” che me la fece scoprire e che mi conquistò al primo ascolto.

Rita Tekeyan - Green Line
Rita Tekeyan – Green Line

Sono passati sei anni dal suo debutto discografico, quel “Manifesto AntiWar” che me la fece scoprire e che mi conquistò al primo ascolto. Da allora non ho mai smesso di seguirla, in paziente attesa di un suo secondo disco, e finalmente sono stato accontentato. Sei anni abbiamo detto. Sei anni in cui Rita si è dedicata con abnegazione al suo progetto, sei anni che le hanno permesso di realizzare un disco di rara intensità emotiva, sei anni che ce la restituiscono più che mai decisa nel portare avanti la sua idea di coniugare la musica con le emozioni più crude legate alle aberrazioni della guerra. Rita Tekeyan prosegue infatti nel concept iniziato con il primo album. La sua intenzione dichiarata è quella di andare contro ogni tipo di conflitto bellico. Non solo la guerra civile libanese raccontata in questo “Green Line” ma anche tutte le guerre e tutti i genocidi, per una liberazione dal male che sia totale. Sicuramente difficoltosa, amara, ma assolutamente necessaria. Lei che la guerra l’ha non solo vissuta da bambina in una Beirut dilaniata dal conflitto tra cristiani e musulmani, ma che la porta dentro di sé, con le sue origini armene che non possono non riportarci al genocidio per mano turca.

“Green Line” prende il nome dalla linea verde che divideva Beirut durante la guerra civile, sulla falsa riga della Berlino post bellica. Una guerra che Rita ha visto sin dalla nascita e che ha dilaniato il Libano per 15 lunghi anni. È proprio questa sua esperienza infantile che l’ha spinta a raccontare gli orrori di chi ha visto coi suoi innocenti occhi di bambina, privi di ogni malizia e condizionamento, cose che si porterà dietro per tutta la vita. Sono proprio questi ricordi che danno vita a “Green Line”, istantanee di un mondo che noi possiamo solo immaginare, ma che è quanto di più distante possa esserci dalla quotidianità che viviamo. Istantanee che ritroviamo nel booklet del CD, realizzato grazie alle fotografie realizzate dalla stessa Rita nel 2016 per le strade di Beirut. Ricordi legati ai luoghi dell’infanzia trasfigurati dalla guerra, dove regnano angosciose sensazioni di smarrimento e di dolore, ma anche la voglia di non farsi inghiottire dagli orrori della guerra e di tutto ciò che ne consegue.

Da un punto di vista sonoro non possiamo non sottolineare la completezza di Rita come artista. Sue le musiche, i testi e il pianoforte. Al resto, batteria, chitarra, basso e synth, ci pensa Paolo Messere (Blessed Child Opera e boss della Seahorse Rec.). Il risultato è un album che porta la mente in lidi sconosciuti, dove disperazione e sofferenza si alternano al desiderio di rivalsa e di rinascita di tutti coloro che hanno visto la morte sedersi davanti a loro in paziente attesa. Il caleidoscopico corollario di sonorità lascia ben pochi punti di riferimento a chi cerca di contestualizzare e incanalare il sound di Rita Tekeyan all’interno di filoni musicali standardizzati.

L’unico collante è quel senso di follia che pervade le sue composizioni e che trasuda da ogni brano, contribuendo a dare ulteriore pathos al disco. Non scopriamo nulla di nuovo rimarcando come il fascino etnico di Rita contribuisca a dare quel sublime tocco di eleganza agli arrangiamenti. La sua grande capacità sta proprio qui, nel riuscire a a coniugare tra loro culture distanti non solo geograficamente, come solo i grandi artisti del passato sono riusciti a fare. Se diciamo Kate Bush e Diamanda Galas nessuno si deve scandalizzare, dal momento che se non siamo riusciti a rendere l’idea ci siamo andati decisamente molto, ma molto vicini.

Nei dodici brani troviamo l’oscurità delle atmosfere dark che si fondono con il rigore delle parti più evocative e recitate contribuendo a rendere omogeneo un album che a prima vista potrebbe sembrare slegato ma che, grazie alla capacità di Rita di tenere tutto unito, ci mostra come sia possibile fondere l’eleganza dei suoni più etnici con l’enfasi delle rimiche marziali e medievaleggianti.

“Green Line” è un crescendo continuo di intensità, da ascoltare nella sua totalità, senza soste, per poterlo apprezzare appieno. Un album “mistico” e maturo, pronto per portarla dove meriterebbe. Rita è un’artista tra le più sottovalutate e sottostimate di tutto il panorama italiano. Non ha santi in paradiso e questo si ripercuote sulla sua visibilità, decisamente inferiore rispetto ad altri che non hanno un decimo della sua classe e delle sue qualità. Rita è forse un’artista troppo “musicale” per tutti coloro che cercano dei fantocci che ripropongano i cliché cui siamo abituati. C’è in atto un tentativo di portare avanti uno standard di “ribellione” che non si ribella proprio da nulla. Rita è al di fuori di tutto questo. Lei parla in modo sincero e se ha (giustamente) deciso di intraprendere una strada in salita, siamo certi che per lei questa strada non potrà che regalarle grandi soddisfazioni.

L’album è uscito nel 105° anniversario del genocidio armeno. E da questa tragedia prende vita la sua grande forza espressiva. È un disco che rispecchia la sua autrice e il suo rapporto con la guerra, tragico delicato e sofferto, ma anche decisamente elegante. La disperazione di “Green Line” è quella che ci auguriamo di non trovare mai sul nostro cammino, quella dei sogni negati di chi nasce, vive e muore con l’incubo bellico. Sono dunque le cicatrici dell’anima, di chi ha visto e vissuto le atrocità della guerra, il contesto ideale per un album come “Green Line”. Il passato non tornerà (o almeno questo è quello che ci auguriamo) ma non per questo dobbiamo permetterci di fare l’errore più grande. Il vero grande pericolo è qui, nel pensare di riuscire ad adattarci a tutto, abituati a gestire ogni difficoltà grazie al nostro istinto di sopravvivenza. Non possiamo nemmeno pensare di correre il rischio di abituarci alla guerra, di rendere normale ogni tipo di atrocità. Rita Tekeyan ce lo spiega benissimo nel suo “Green Line”, diamole ascolto.

 

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