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Recensione : Mogwai – The bad fire

Mogwai "The bad fire": il nuovo album celebra 30 anni di musica, tra emozioni e suoni. Scopri le storie dietro i brani del quartetto scozzese.

Undicesimo studio album per i post-rockers scozzesi Mogwai, che quest’anno festeggiano i trenta anni di percorso musicale pubblicando “The bad fire“, uscito nel mese di gennaio – a quattro anni di distanza dal precedente full length “As the love continues” – sulla loro label Rock Action Records (in collaborazione con la newyorkese Temporary Residence Limited). A corredo, la band aveva già fatto uscire, qualche mese fa, il film biografico “If the Stars Had a Sound“.

Il quartetto di Glasgow (che schiera una solida e duratura line up composta dai membri fondatori Dominic Aitchison al basso e chitarra/tastiere, il frontman e chitarrista Stuart Braithwaite e il batterista Martin Bulloch, coadiuvati dal polistrumentista Barry Burns) utilizza lo slang working class locale – il “bad fire” è una metafora per riferirsi all’Inferno – per sintetizzare i momenti di difficoltà avuti dal gruppo dopo “As the love continues“, tra scoramenti e problemi familiari capitati ad alcuni membri, tornando a registrare musica rifugiandosi nei luoghi sicuri dell’anima, sciorinando dieci brani (registrati col produttore americano John Congleton, già al lavoro con Explosions in the sky e Sigur Rós, tra gli altri) all’insegna del consueto caleidoscopio di colori, umori ed emozioni soniche e cerebrali.

L’opener “God gets you back” fonde atmosfere shoegaze à la My Bloody Valentine con pulsioni synthetiche, la poderosa cavalcata “Hi chaos” carica a tessa bassa e sembra essere un tributo al sound degli esordi del combo glaswegian, il chiaroscuro saliscendi emotivo di “What kind of mix is this?” fa da contraltare al grintoso post-electro-rock di “Fanzine made of flesh” dalle suggestioni Nineties kraut (Stereolab, Tortoise e dintorni) mentre “Pale vegan hip pain” è permeata da un mood malinconico quasi Smithiano, mestizia che contraddistingue anche i primi tre minuti di “If you find this world bad, you should see some of the others“, che poi nella parte centrale varia ritmo ed esplode come il vulcano raffigurato sulla copertina del long playing, e che ritorna in “18 volcanoes“, bruciata ancora di zampilli di lava shoegaze. Lidi kraut tornano a lambire “Hammer room” e l’aria si incendia di nervose distorsioni e assoli Mascisiani in “Lion rumpus“, preparando il terreno per il finale ambient etereo di “Fact boy“, la quiete dopo la tempesta.

Creare nuova musica come stimolo per andare avanti e uscire fuori da periodi difficili, l’amore per la musica che allevia i dolori e salva le vite, processando paure e sofferenze sotto la lente dell’arte per tramutarle in bellezza: anche i Mogwai sono passati attraverso questa fase dell’esistenza, consegnandoci con “The bad fire” un lavoro compatto, coeso, granitico e intenso. Bentornati.

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