La rivista per la quale collaboro, mi ha chiesto di scrivere una recensione sull’ultimo lavoro discografico di David Bowie, Blackstar, questa cosa oltre che riempirmi di gioia, mi rende anche inquieto, dovendo affrontare il compito di dover parlare di un genio della musica degli ultimi quaranta anni.
Sulla storia della sua carriera assolutamente unica ed enorme, il sottoscritto non potrà aggiungere affatto nulla, né tanto meno potrà dare letture diverse sullo stile, la poetica o le capacità incredibilmente creative di Bowie. Il mio apporto sarà quindi semplicemente quello di cercare di offrire una lettura del disco, usando un approccio di grande rispetto ma innanzitutto di stampo emozionale. Proverò a farlo con il forte turbamento che ancora mi porto dentro per la dipartita di questo monumento della musica e soprattutto sull’onda di quello relativo all’ascolto di questo capolavoro, perché di capolavoro si tratta.
Cercherò di liberarmi dal facile gioco dei riferimenti emotivi relativi alla sua scomparsa e da tutto il nozionismo e l’aneddotica correlata, basata questa su cenni di esoterismo o facile nostalgica mancanza. Questo disco ci porta dritti, dritti nell’armonia del nuovo millennio, il 3.000: immagino schiere di musicisti replicanti o di robot machine produrre siffatti suoni nel prossimo secolo, Ziggy ha di nuovo lasciato il segno.
Blackstar sembra essere eseguito da una di quelle band che spesso compaiono negli episodi di Star Wars: strani ominidi dall’enorme cranio bianco e dagli occhi neri da insetto che imbracciano strumenti pseudo fantascientifici, i quali emettono bislacche melodie e suoni alieni. Una soundtrack che ho sempre immaginato, oppure che ho sempre ascoltato inconsciamente mentre leggevo, fantasticando, i romanzi di Philip K. Dick o di Alfred Elton van Vogt.
La misura di questo disco sta nella sua grande forza e potenza evocativa, l’evocazione del secolo scorso e della colonna sonora degli ultimi quaranta anni dello stesso, proiettandosi contemporaneamente nel futuro. E’ come un deja vù uditivo, ascoltando, sai di esserci già stato lì, in quel luogo non luogo creativo, ma non sai bene dove si trovi quel posto, non sai se risieda nel passato, nel presente o nel futuro, non sai se sia questo pianeta, questa galassia oppure un’altra dimensione. Ci troviamo dinnanzi ad un disco di una bellezza senza confine spazio temporale: emozione, freschezza, innovazione, classe, novità costanti, immerse in suoni di una vita precedente e ritmi del tempo che verrà, una sorta di stargate musicale.
Si potrebbero trovare tags di varia natura stilistica per individuare le trame recitative musicali di ogni singolo brano o dell’intero album. Nu Jazz, Tecno Rock, Elettronica, New Romantic, Industrial Pop, Glam Rock tutte insieme o nessuna di queste; chiamatela come volete ma io la individuo semplicemente con un nome, musica.
“La sua morte non è stata diversa dalla sua vita: un’opera d’arte”, così ha commentato, Tony Visconti, il co-produttore del disco e proprio come una opera d’arte questo lavoro è stato immaginato e realizzato da David Bowie. Un concept album che ha come temi secondo alcuni, la morte e la sofferenza, argomenti drammatici e purtroppo per lui contingenti, visto la malattia che lo ha colpito e gli ha tolto la vita, ma che vengono affrontati come sempre, con disincanto, umana nostalgia e stellare malinconia dal nostro Duca Bianco.
Blackstar, la title track è corredata da un bellissimo ed al contempo inquietante video, dove le capacità attoriali e sceniche di David Bowie continuano a sorprendere per brillantezza ed originalità nonostante il passare degli anni. Si ispira al romanzo ‘Ormen – Il serpente’ del giovanissimo scrittore svedese Stig Dagerman, la cui breve vita culminò nel suicidio a 31 anni. E’ attorno alla sua storia oscura, ed al tema del terrore, che tutto il brano si muove. L’ambientazione è quella di un pianeta da incubo o da sogno in cui bizzarre figure si muovono in una scenografia che, per alcuni versi, ricorda i quadri di Henri Rousseau e nella quale il regista, ispirandosi forse al pittore, realizza uno spazio bidimensionale che, insieme al colore irreale, trasforma i personaggi in miti ed emblemi, negando e superando la conoscenza razionale del tempo e dello spazio.
Il lungo brano (dieci minuti) è quasi una mini opera rock, ha un testo criptico, con rimandi di vaga natura esoterica, musicalmente si dipana in tre parti distinte, dove i riferimenti musicali sono molteplici. Si passa dalle atmosfere dell’elettronica anni 80/90, tanto care ai Depeche Mode, a quelle più decisamente e melodicamente rock in cui domina l’originalità del miglior Bowie, per poi terminare con un finale decisamente più avantgarde, a sfiorare il free Jazz elettronico.
Anche il secondo brano Tis a Pity She Was a Whore ha riferimenti letterari o meglio teatrali, riferendosi ad una pièce di un drammaturgo inglese del diciassettesimo secolo. Dal punto di vista musicale siamo di fronte ad un tecno funk di moderna concezione, dove spicca l’elegante suono di David Bowie nel suo tipico timbro. Un viaggio scandito prima da un sospiro della voce che lascia la scena ad un rhythm shot continuo, che scandirà l’intera durata del brano. Il contesto ritmico ed armonico melodico è di altissimo livello: le percussioni e la batteria di Mark Giuiliana sono protagoniste (batterista Jazz di grandissima classe, forse uno dei più originali del momento e già sodale di Brad Meldhau) e l’austero ma onnipresente basso di Tim Lefebvre, così come l’elegantissimo sassofono di Donny McCaslin (già membro degli Steps Ahead e collaboratore di Dave Douglas, Danilo Perez, Antonio Sanchez, John Medeski). Da non dimenticare assolutamente le tastiere ed i synth tardo rock di Jason Lindner, nonché la chitarra di Ben Monder.
In Lazarus torna il supporto video a sostenere il brano. Anche in questo caso il tema della sofferenza è chiaramente visibile dalle immagini. Tutto ha inizio e termina in un vecchio armadio di legno a due ante, nel mezzo un invecchiato Ziggy canta disteso in camicia da notte su un letto di ospedale. Poi ecco la sorpresa, il brano cambia registro e nonostante tutto, viene fuori la grinta, la forza d’animo, la voglia di combattere e di resistere e persistere alla malattia ed alla fine annunciata attraverso un testamento virtuale e musicale. Il testo non è assolutamente ermetico e parla in maniera diretta e chiara: “in un modo o nell’altro sai che sarò libero proprio come il Bluebird. Ora non è proprio uguale me? Oh, sarò libero Proprio come quegli uccellini Oh, sarò libero Non è proprio come me?” Alla fine però il Duca deve arrendersi e scomparire, riluttante, come risucchiato da una misteriosa forza nell’armadio. Il brano inizia con una chitarra che ricorda nelle sonorità e nello stile quella dei The Cure, un oscuro e lento suono di sassofono fa da tappeto sonoro alla voce stanca di David Bowie. Improvvisamente però una apertura, una scheggia di luce, batteria e sassofono alzano il ritmo reagiscono anche loro alla sofferenza per poi defilarsi come il personaggio del video nel chiuso dell’armadio.
Sue (Or in a Season of Crime) già pubblicato su singolo nel 2014, è stata volutamente ri-registrato per Blackstar, includendo nuove parti di sassofono ad opera di Donny McCaslin. Si tratta di un Jungle Trip dalla fortissima e costante inquietudine in cui la batteria di Mark Guiliana e la chitarra di Ben Monder sono padrone di instillare tutta la loro velenosa tensione, mentre l’elettronica di Jason Linder ed il sassofono di McCaslin sostengono la voce, proveniente direttamente dallo spazio, di David Bowie. Girl Loves Me è un dub elettronico di chiaro sapore post-atomico: la amata Cheena, protagonista del brano, viene evocata prima in maniera disperata: “La ragazza mi ama, Hey Cheena, La ragazza mi ama, La ragazza mi ama, Hey Cheena La ragazza mi ama” per poi essere blandita e richiamata all’origine dell’amore con una cantilena scioglilingua, quasi fanciullesca. I riferimenti a brani dei Talking Heads o a certi lavori di Peter Gabriel, sono per il sottoscritto evidenti e piacevolmente voluti anche dall’autore, forse.
Dollar Days inizia con uno stropiccìo di fogli in sottofondo, quasi come a significare la scrittura del testo o delle note dello spartito del brano. Si tratta di una dolce e malinconica ballad in puro stile Bowie, echi degli Style Council e della new wave era degli anni ottanta sono nettamente percettibili. Il sax di McCaslin gareggia in dolcezza e classe con la voce del Duca Bianco. Nel solo del sassofonista californiano (candidato al Grammy Awards 2015 con il suo ultimo lavoro, come miglior disco di improvvisazione solista ndr.) coesistono il suono del sassofono dei Dire Straits di Your Latest Trick e quello di Joshua Redman in Highway Rider di Brad Meldhau. Il tutto è filtrato da un gusto elegantissimo abbinato ad una potenza emozionante.
Il pezzo che chiude l’album I Can’t Give Everything Away è un pugno che arriva direttamente al cuore e per un momento lo ferma, lo sospende. Un’atmosfera che ondeggia tra sapori anni ottanta e post elettronica, archi synth e chitarra acida, l’armonica a bocca è il fischio di una lontana locomotiva trans stellare che ricomincia il suo viaggio fra le galassie, partendo da questo pianeta per ritornare da dove un giorno era partita. Il suo suono rimanda al grido appassionato e serenamente straziante di David Bowie ‘Non posso dare via tutto’.
Musica, bellissima musica quella di un artista dal cuore immenso, che a 69 anni riesce ancora a farti lacrimare di commozione ed emozione per il suo innocente sguardo sulla bellezza. L’esplosione di una supernova di creatività, grazie Ziggy, la tua stella ti accoglie nel suo grembo per sempre.
TRACKLIST
1. Blackstar
2. ‘Tis a Pity She Was a Whore
3. Lazarus
4. Sue (Or in a Season of Crime)
5. Girl Loves Me
6. Dollar Days
7. I Can’t Give Everything Away
LINE-UP
David Bowie – voce, chitarra acustica, chitarra elettrica in Lazarus, arrangiamento archi
Tim Lefebvre – basso
Mark Guiliana – batteria, percussioni
Donny McCaslin – sassofono, flauto
Ben Monder – chitarra elettrica
Jason Lindner – pianoforte, organo, tastiera
James Murphy – percussioni
Tony Visconti – archi
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