Marco Contestabile (aka Black Snake Moan) e la sua musica sono persi nel tempo, vivono in una dimensione che non è di questi anni e neppure dei precedenti.
Ogni collegamento, più o meno palese, sembra a tratti strumentale per un artista che, da subito, si è ritagliato il proprio spazio, scrivendo canzoni che vagano in estrema libertà. Ovvio le similitudini con altri proposte ci sono, nessuno di noi comincia a fare musica scevro di influenze, ma il taglio personale che il nostro sa dare alle sue composizioni rende la sua musica un (non) luogo in cui è bellissimo perdersi.
Ad ulteriore dimostrazione di quanto ho scritto in occasione delle sue precedenti uscite, i nove pezzi di questo nuovo album si aprono con suggestioni tra il deserto e lo spazio infinito di Dirty Ground passando poi all’andamento doloroso di Light the Incense.
L’arpeggio di chitarra in Shade of the Sun è ancestrale e immaginifico, e se Goin’Back rammenta la leggiadria folk di CSN&Y, West Coast è il brano più profondamente psychedelico del lotto, laddove a chiudere ci pensa la malinconica dolcezza di Cross the Border. Nella musica di Black Snake Moan si odono chiaramente echi doorsiani o, voglio ripetermi, quelli di band quali Love e Kaleidoscope ma, a fare capolino in questo album, più che nelle precedenti uscite, si stagliano pure le figure ingombranti, ma pregnanti di Johnny Cash, Stan Ridgway e David Crosby.
Voi ci credete all’anima? No, non quella che ci ha venduto, ammorbandoci, per secoli la religione cattolica, ma qualcosa di profondo e insondabile, di assolutamente ultraterreno.
Beh, in alcuni casi, la musica tocca quella cosa lì, di qualsiasi cosa si tratti, ed è per questo che ci è così cara, così necessaria.
Black Snake Moan
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