Urgenza creativa, desiderio di esprimersi, comunicare, confrontarsi . Sempre e comunque, di fronte ad ogni ostacolo, ad ogni indisposizione. Ostacoli che diventano possibilità, che aprono a nuove soluzioni.
In una parola: Punk.
In tre parole: valutazione, pensiero, azione.
Il batterista dei Montana deve recarsi all’estero per motivi di lavoro e il gruppo si reinventa con un altro batterista in una nuova esperienza: Crust Core tirato, moderno,
perfetta colonna sonora di giorni passati tra una pandemia ed una nuova minaccia nucleare.
I testi sono frammenti di discussioni, dialoghi conflittuali; stralci ed estratti da una vita purtroppo diventata troppo comune negli ultimi due anni e che, ahinoi, diventano sempre più comprensibili e condivisibili.
Questa caratteristica tematica descrive gli Ukaze come un gruppo peculiare ed a sé stante nel concetto di Crust:
non più paesaggi apocalittici, fredde cronache di guerra, scenari malsani, ma descrizioni di attimi vissuti nell’ostilità; gli Ukaze paiono quasi dirci che oramai “La Guerra” è entrata a fare parte delle vite comuni, nei rapporti interpersonali, nel linguaggio, nelle relazioni.
Tendenzialmente, qualcosa di peggiore di un paesaggio apocalittico o di una fredda cronaca di Guerra: noi siamo guerra, noi siamo conflitto, noi siamo il nemico.
Musicalmente parlando tutto questo si traduce in un Anarcho-Punk tipicamente italiano (prendere 5°Braccio, Wretched e quelle tirate sghembe in sedicesimi tipiche dei Peggio Punx dei primi 7”) farcito da una buona dose di D-Beat svedese (Anti-Cimex prima di tutti e poi Totalitar, Wolf Brigade e Skitsystem in seconda, ma non meno essenziale, battuta).
Tutte caratteristiche già presenti all’appello nel primo fantastico pezzo: “Impersonale”. Si parte, quindi, come si partirebbe in Svezia, sospesi tra un riff Crust intrappolato da accenti dati da basso e batteria per poi dare vita a un massacro o, detto molto meglio, a una vera e propria Rovina Hardcore (come la vecchia ‘Zine T.V.O.R. ci ha insegnato):
un pezzo che tira, spinge ma non si infrange; resta solido anche quando ritorna il dialogo a singhiozzo tra chitarra, batteria e basso (trovata geniale che caratterizza la canzone e la erge a grande overture).
“Preferirei sapere che ho il tuo disprezzo invece che vederti esitare, fare il vago…”
E siamo già alla difficoltà dei rapporti umani, la doppia morale, lo stupido chiacchiericcio, le frecciatine di squallida scuola borghese.
Tuttavia, bisogna fare attenzione: questo non è un disco concettualmente impostato su di un semplice “io contro di te” ma si apre a riflessioni di ben più ampio raggio
“Certo ha un peso ammettere di essere stato debole, ma a chi non è mai successo? Non occorre che tu sia sempre all’altezza: inciampando sulla via, così stai imparando”
In “A Passo Incerto” si giustifica il delatore che, in fin dei conti, viene considerato reo solo di appartenere ad un contesto che lo ha indirizzato verso modalità sbagliate e volte alla mediocrità umana.
In uno schiaffo di classico hardcore italiano, colmo di stacchi mozzafiato, gli Ukaze traggono insegnamenti e li condividono con noi.
Particolare attenzione va posta sul cantato: stesso cantante dei Montana e si sente; una voce ben rodata che nel suoi toni secchi ed aspri, quasi strozzati, si sposa alla perfezione con qualsiasi formula Hardcore possibile, riuscendo, nella sua peculiarità, a non lasciare mai scivolare dei pezzi così marcatamente “di genere” nel calderone della banalità e del già sentito.
Ci se ne accorge a colpo d’orecchio in “Faccio Muro”, brano dalla struttura antemica ma che il cantato, così volutamente disordinato e declamato, salva da ogni tranello “pop” che questa forma esige. Quello che ne esce fuori è uno dei picchi del disco (non fosse solo che per il titolo, davvero definitivo)
C’è anche spazio per la politica in una forma più diretta, pur mantenendo la forma del dialogo conflittuale, e, dopo un attacco meraviglioso (tutto si può dire agli Ukaze tranne che non sappiano come modellare i loro incipit allo scopo di creare tensione prima degli affondi spietati che li seguono a cascata) si parte con una dura critica al cittadino-sceriffo (figura tristemente troppo alla ribalta in questi ultimi anni)
“Vigile, complice, servile: vedi il male anche dove non ce n’è, dietro gesti inoffensivi che per te sono già minacce. Puntare l’indice vuol dire sottintendere un giudizio morale. Un delatore, è questo che sei, per natura e indole. Prediche, critiche, regole, rigore: un mare verde di bile in cui affogare.” (riporto per intero poiché ho particolarmente apprezzato).
“Vocazione Sceriffo” è la foto, dura, realistica, tutt’altro che ritoccata, di quello che siamo diventati: giudici degli altri e mai di noi stessi, in un continuo peggiorarsi…
Un altro affondo spietato con “Alla Testa”, altro brano in odore di indici puntati verso il palco e di senso di appartenenza, con un mid tempo costante e che si risolve in un bel Fast core a mo’ di finale
“Metti tu a tacere questi miei pensieri, ne fan tanto di rumore, li copra un silenzio tale che scompaiano” e il dialogo ora si compie di fronte ad uno specchio: uno dei testi più introspettivi, dove, in estrema riflessione, si chiede di spengere il pensiero poiché è in esso che lo scoramento dell’individuo trova la sua genesi. Autocritica? Richiesta di aiuto?
L’importante è chiederselo, questo è sicuro.
Non a caso il brano successivo è uno strumentale, “Sogno Nero”: un altro cadenzato, introdotto da un basso funereo, dai toni crepuscolari (perfetto seguito di un brano come “Alla Testa”, così disperato, così fragile…).
Oramai sembra che questa seconda parte del disco voglia convogliare inesorabilmente verso il lato più intimo del gruppo: “Palude” parte di nuovo si ritmi meno sostenuti rispetto all’inizio del disco
“Un altro passo e poi mi chiedo: che cosa troverò sul mio sentiero? E’ terra bagnata, una palude torbida ed insidiosa. In qualche modo ne uscirò, in qualche modo ne uscirò.”
ma ad un tratto il pezzo rialza la testa e si spinge a tempo di sedicesimi verso un finale da testate contro il muro, tanto è violento.
Tanto è vitale.
Infatti “Estrema Sintesi” ha un incedere più Rock n’Roll, più vivace. Dura poco ma quanto basta a rialzare la temperatura del disco
(…”Cambi pelle, resti serpe. Il contesto non conta poi tanto, il vero problema sei tu, chiaro? “…giusto per dire che siamo tornati a mordere) che con “Ecco cosa resta” si ripianta su un alternanza tra Crust e Fast Core, vera formula quasi costante dell’intero disco e che qui, ovviamente, non delude ma, anzi, entusiasma e attanaglia ancora di più all’ascolto…
e non si rimane per niente delusi infatti da Presente Semplice, altro Crust classico che nel finale diventa cavalcata ai limiti dell’epico (soluzione armonica felicissima, ci tengo a dirlo…).
Il finale è affidato ad uno dei pezzi più belli se non il più rappresentativo dell’intero Album: “ritratto di famiglia” è un festival D-Beat con stop and go e affondi ultracore da veri brividi che percorrono la schiena; come riuscire ad essere così intensi e romantici (nella vera e pura accezione del termine) in due minuti scarsi di canzone, ad una velocità efferata, senza sosta e senza requie?
La risposta è proprio nel saper maneggiare con mano esperta quella materia chiamata Punk Hardcore;
fare di esigenza una forza, di irruenza un sentimento, di tempesta di pensieri, ed idee, sintesi.
Tutte cose per cui i nostri, già in passato (più di recente nei Montana e, più in là nel tempo, negli Un Quarto Morto e Semenzara) hanno saputo dimostrare di esserne portatori e conduttori più che sani e, mi auguro davvero, continueranno a fare: