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Recensione : Odio Al Serio – Turbolenza

Questo EP è uscito nella primavera del 2021 e io lo recensisco solo ora. Li ho scoperti solo pochi giorni fa, questi Odio al Serio.

Questo EP è uscito nella primavera del 2021 e io lo recensisco solo ora. Li ho scoperti solo pochi giorni fa, questi Odio al Serio, o io ho aggiunto loro su IG o loro hanno aggiunto me, non ricordo, però, come sempre mi succede, sono andato a sentirmeli, per curiosità, per amore di ascolto, perché semplicemente mi andava, e mi son piaciuti parecchio;

questo EP, poi, è uscito in supporto di Radio Blackout, una frequenza che ha sempre avuto per me una dimensione mitica: la Torino delle occupazioni, delle proteste, della maledetta Fiat, dei filomonarchici, degli anarchici, di El Paso e della Delta House, di Piazza Statuto…un luogo che per me, negli anni, ha sempre più assunto lo status di mitologico.

Questi Odio al Serio, poi, ben si incastrano nella tradizione Hardcore Punk della città in questione: 5°Braccio, Kollettivo, Declino, Arturo, Crunch, Mucopus, Belli-Cosi, Confusione…

si riprende da dove si è cresciuti, da dove si è imparato ad amare ciò che si suona, quello che si racconta.

Una continua sfida all’esistente, allo stato delle cose, quella velata disperazione incanalata da un’amara ironia che l’hardcore torinese ha sempre saputo tradurre in musica, urla, emozioni.

Gli Odio al Serio ricompongono il passato, lo riassemblano, fanno un collage utilizzando due generazioni di punk torinesi, quelli degli anni ’80 e quelli dei ’90, aggiungono dosi di crust, atmosfere da Sabba, ancora più significato e significante: la loro visione emotiva del mondo in cui, oggi, tutte e tutti ci ritroviamo a vivere.

Un EP, questo, che parte con un hardcore disperato, veloce: basso, batteria, quando, dopo pochi secondi, attacca la chitarra sembra che tutti vada a rotoli, la voce commenta con un “ahhh!” che, nel suo elementare primitivismo, introduce al tema principale della canzone se non dell’intero disco:

un genere umano che perso di senso (la prima che, giustamente, si intitola Aaah), che ha venduto il proprio tempo, se lo è visto rivendere in porzioni regolamentate da consumo e produzione (la danza macabra di Velociraptor), che dalle sue origini nomadi si è ormai abbandonata a una condizione stanziale e routinaria (la disperazione fragile di Immagina), che, piano piano, pur cercando un capro espiatorio, nel governo di turno, nel mostro di turno, nel partito di turno, si dimentica che l’unica costante, in questo declino senza possibilità di ritorno, è proprio esso stesso, che, se si cercasse un colpevole, va ricercato in noi stessi (Virale, dove si ripete fino alla nausea “il virus siete voi!”).

Un disco breve, troppo breve per quello che ancora, nel loro sapiente ermetismo (sia lirico che musicale), gli Odio al Serio sanno esprimere: messaggi brevi, tirati fino all’osso, tagliando il tessuto dell’esistente con precisione chirurgica;

ma breve, conciso, è come un disco di questo genere ha da essere: anche nel non detto, nel silenzio degli strumenti, gli Odio al Serio, sanno rappresentare la nostra mancanza di sostanza, di analisi del presente, di costruzione, di senso.

Il disco si conclude con una lenta marcia sghemba che, dopo tanto correre, tra danze ossessive, convulsioni vocali, sfuriate al cardiopalma, momenti di riflessione guidati da una chitarra dissonante sotto effetto Echo, conduce verso un baratro senza fondo:

una comica, per quanto claudicante e ridicola, marcia verso la fine dei nostri giorni, a meno che non ci si decida a prendere sul serio, come sarebbe giusto, le parole urlate in questo disco e ripartissimo da capo, più padroni del nostro tempo e, quindi, anche delle nostre vite.

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