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Recensione : Superchunk – Songs in the key of Yikes

Pochi gruppi possono vantare un percorso coerente e artisticamente integro come quello dei Superchunk. La veterana indie/alternative band, originaria di North Chapel Hill (North Carolina) e in pista dall’ormai lontano 1989, nel suo piccolo ha contribuito – pur conservando sempre un fiero spirito indipendente e una forte etica Do-It-Yourself – a rendere irripetibile quella stagione dell’indie rock statunitense che, ceduta la diga underground, tracimò inondando il mainstream discografico e l’etere mediatico con un inaspettato boom nei riscontri di pubblico e vendite (dovuto soprattutto all’uscita di “Nevermind” dei Nirvana e alla sua esplosione nelle classifiche).

Quest’anno il quartetto – Mac McCaughan alla chitarra e voce, Jim Wilbur alla chitarra, Laura Ballance al basso e Laura King alla batteria e backing vocals – ha pubblicato il suo tredicesimo Lp complessivo, “Songs in the key of Yikes“, che arriva a tre anni di distanza da “Wild loneliness” e vede la luce su Merge Records, una label legata a doppio filo con la parabola del combo (essendo stata fondata, nel 1989, proprio da McCaughan e la Ballance) e che si propone di essere “un balsamo catartico per questi tempi opprimenti“, suonando, allo stesso tempo, energico e viscerale e, insieme, catchy con ritornelli a presa rapida (vedasi nell’opener “Is it making you feel something“, col refrain che presto ti si stampa nel cervello).

Grintose scorribande indie rock di quello buono (in “Stuck in a dream“, “No hope“, “Train on fire” o “Everybody dies“, che vede la partecipazione alle backing vocals di Rosali Middleman, presente anche in “Bruised lung” in veste di chitarrista) convivono con midtempo dal feeling dannatamente Nineties (“Care less” con Betsy Wright alle backing vocals, “Climb the walls“, la Pixes-ianaCue“, che ospita Bella Quinlan e Holly Thomas alle backing vocals, la conclusiva “Some green“) rinverdendo una formula che, a dispetto del tempo che passa, non stanca e riesce sempre a suonare fresca e non banale.

In tempi paradossali e iperdistopici come questi, se da un lato ci si riempie la bocca con la parola “empatia”, ma si pretende di esternarla solo quando viene uccisa una persona di carnagione bianca (mentre le masse, rimbambite dai media mainstream, fanno finta di non vedere le decine di migliaia di arabi palestinesi ridotti alla fame, messi in fuga e trucidati dalle criminali politiche genocidiarie suprematiste e colonialiste israeliane, in quel caso l’empatia non viene imposta dall’ipocrita regime del “politicamente corretto” imperante in Occidente, perché quei poveri straccioni possono morire, in quanto considerati bestie, “animali umani”… se la si guarda con questi occhi, la copertina di “Songs in the key of Yikes” potrebbe benissimo raffigurare l’incubo della realizzazione di quel progetto abominevole chiamato “The Gaza riviera”, con un cadavere palestinese sulla sdraio che attende di essere sepolto da Trump e Netanyahu in un cimitero costruito sotto la nuova “Striscia” concepita dalla neonazista “Grande Israele” per i ricchi biliardari, tra resort lussuosi e casinò in stile Dubai o Las Vegas) e la sedicente e autoproclamata “democrazia più grande del mondo”, quella yankee statunitense, è ostaggio di élites capitaliste/tecnofeudali razziste, segregazioniste e fasciste che eleggono a “martiri della libertà” gente che ha/aveva una visione del mondo retrograda redneck, che ha seminato vento e ha raccolto tempesta, fomentando odio ideologico misogino, omofobo, xenofobo, classista, machista e guerrafondaio, dall’altro lato, per fortuna, esiste anche un’altra America, quella dell’arte “altra”, refrattaria e alternativa a questa merda di società odierna, una categoria umana sana nella quale, sicuramente, rientrano anche i Superchunk.

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