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Rita Tekeyan

Sono nata a Beirut in Libano durante il periodo della guerra civile e provengo da una famiglia di origine armena, i miei nonni erano orfani sopravvissuti al genocidio armeno, i miei antenati abitavano in terre che fanno parte della attuale Turchia. Rita Tekeyan.

Rita Tekeyan

  1. La tua è una formazione musicale che parte da molto lontano. Se non ho letto male, nella tua famiglia sono diversi i musicisti. Ovvio che quindi, anche tu, finissi per prendere questa strada. Dato per assodato che “geneticamente” sei stata avvantaggiata, quanto ha influito nella tua crescita artistica l’ambiente nel quale sei nata e cresciuta? Quanto quel Medio Oriente che per noi italiani è ancora oggi un mondo quasi completamente inesplorato, ha inciso nelle tue sonorità, nelle tue scelte musicali, nel tuo percorso?

Sono nata a Beirut in Libano durante il periodo della guerra civile e provengo da una famiglia di origine armena, i miei nonni erano orfani sopravvissuti al genocidio armeno, i miei antenati abitavano in terre che fanno parte della attuale Turchia. Il Libano, la Fenice dell’antichità era la culla della civiltà come lo era anche l’Armenia dell’antichità. Le influenze sono molte, il Libano è un paese poliglotta dove la popolazione parla almeno 3 lingue, ci sono influenze da varie culture, la cultura si rispecchia nell’arte, nella musica, nelle tradizioni, comunque tutto faceva parte di una normalità e una naturalezza che uno che ci vive non ci pensa. In Libano vivono persone di varie religioni, di varie etnie, molto diverse tra di loro. Come era nella Cilicia che era un distretto sulla costa sudorientale dell’Asia Minore (Turchia) dove vivevano gli armeni, i turchi, gli ebrei, i greci, nel bacino mediterraneo. Puoi immaginare l’infinita ricchezza di questi popoli e la loro cultura. Provengo di una famiglia che ama l’arte mio dolce padre Hovsep cantava nel coro armeno ed era appassionato di pittura, fotografia, cinema e teatro, mio nonno Avedis Tekeyan era poeta, scrittore e fotografo. Mio zio Bedros Tekeyan che ora vive in Canada anche lui ha scritto tanti libri e bibliografie per preservare la cultura armena di Cilicia. Mio zio materno invece era un batterista che ha vissuto per anni nei paesi scandinavi tra la Norvegia e la Danimarca e viveva di musica suonando in vari locali con la sua band dove era il leader. Siamo cresciuti con varie influenze musicali; tra la musica tradizionale armena, i canti sacri spirituali armeni, la musica folk libanese, la musica classica araba, la musica mediorientale, la musica greca, la musica francese visto che il Libano è un paese francofono. La Letteratura francese che studiavo a scuola e i poeti come Baudelaire e Verlaine hanno avuto particolare influenza su di me. Sono cresciuta scoprendo il rock, il metal, dai Beatles, agli ABBA, la musica anni ’70, Led Zeppelin, Black Sabbath, Pink Floyd, King Crimson, Janis Joplin, Bob Dylan, Scorpions, Queen, Metallica, Guns n Roses, poi altre influenze come Bauhaus, David Bowie, Depeche Mode, Dead Can Dance, Diamanda Galas, Demetrio Stratos, Kate Bush, Tori Amos. Posso andare avanti per un po’ mi sa. Una particolare influenza dai System of a Down e di Serj Tankian che sono un’ispirazione molto preziosa per me.

Per tornare alla tua domanda, posso dire che solo tramite il ritorno alle mie origini, esplorando quel canto armeno antico, mettendolo insieme alle sonorità mediorientale che comunque scorrono nel mio sangue sono riuscita a trovare il mio modo di cantare ed esplorare con la mia voce.

  1. Sei nata, come detto, in una zona dove la guerra ha da sempre un ruolo tutt’altro che marginale. Altra cosa che noi occidentali non siamo in grado di capire e razionalizzare. Possiamo pensare che, anche laddove la morte e la deprivazione regnino sovrane, dove la regola numero uno per andare avanti sia quella di sopravvivere in ogni modo e a ogni costo, nasca e germogli quella bellezza da cantare, recitare o anche solo tramandare nelle forme più disparate, in modo da lasciare una speranza in chi non vuole arrendersi alle brutture belliche?

Assolutamente, quando si vive una situazione di guerra per un lungo periodo, si cerca una normalità, per me la guerra era la normalità, ci si conviveva ma nel frattempo si cercava di fare le cose che si fanno in un mondo normale, tipo andare a scuola, andare a lavorare, ascoltare la musica, cantare e ballare. A volte c’erano momenti dove bisognava mollare tutto, tenere il tempo in sospensione e correre negli scantinati per scappare dalle bombe. Nel libro di mio nonno che raccontava le testimonianze dei sopravvissuti del genocidio armeno, c’era una parte dove le persone si tenevano la mano in mano, cantavano e ballavano per non morire, per non piangere, per non farsi catturare.

Di sicuro ci vuole la speranza per poter sopravvivere alle situazioni. Quando nel 2012 mi trovavo a Beirut mentre c’è stato un attentato, un’esplosione forte, molto vicino alla mia abitazione, mi sono stupita a vedere che il giorno dopo le persone hanno ripreso la loro vita normale come se niente fosse. E dopo l’esplosione dell’anno scorso a Beirut assicuro che le persone stanno cercando di andare avanti nonostante la crisi assurda che stanno vivendo, senza elettricità per tanto tempo, senza medicine, senza cibo cose che non si possono concepire effettivamente nella vita occidentale, dove un blackout di 10mn potrebbe causare un grosso disaggio e mettere in tilt un intera città.

La guerra civile a Beirut aveva anche momenti di apparente pace e sempre si cercava di coprire le tracce, cancellare le cicatrici della guerra, purtroppo le ferite sono molto profonde e non si può guarire. Si può mantenere la memoria, si può sperare si può cantare, d’altronde l’arte dà speranza decisamente e anche conserva la storia, quella raccontata dalle persone e non quella scritta dai potenti.

  1. Nasci in Libano da genitori Armeni e poi vieni a vivere in Italia. Non posso non pensare alle differenze tra queste tre culture. Mi verrebbe da dire che sei (fortunatamente per te) una cittadina del mondo. Condizione mentale che per me dovrebbe essere l’ambizione di tutti, quella cioè di riuscire a vivere senza distinzioni di etnie e in ogni luogo allo stesso modo. Ti senti tale? E ancora, visto che abbiamo parlato di tre realtà tra loro diverse, lascerei un attimo da parte queste “distanze” e andrei a cercare le affinità. C’è qualcosa che lega l’Armenia, il Libano e l’Italia?

Le influenze sono molte, già in Libano ci sono varie culture, ho origine armene ma i miei nonni provenivano della Turchia e parlavano il turco. Io parlo e scrivo 5 lingue, tra i quali l’italiano è l’ultimo arrivato, diciamo che già a 10 anni parlavo 4 lingue a livello madrelingua, capisco anche un po’ il turco. Sono arrivata in Italia, non parlavo nemmeno una parola di italiano, l’ho imparato per forza di cose e grazie al mio francese. Poco dopo circa 2 anni ho frequentato pure il Politecnico di Milano per continuare i miei studi in Architettura, dove ho frequentato i corsi con studenti italiani in lingua italiana, tra questi corsi anche temi tecnici molto complessi come i regolamenti di urbanistica, di edilizia, il diritto pubblico, l’estimo e altro.

Se c’è qualche cosa che lega l’Armenia, il Libano e l’Italia potrebbe essere la ricchezza della loro storia, influenze antiche e varie dominazioni che hanno avuto, una storia che va molto lontano nel tempo dell’antichità. Un altro elemento che unisce i tre paesi è il calore del popolo accogliente.

Diciamo che ho iniziato a pensare alle mie radici, alla mia identità, come anche alla guerra solo dopo che mi sono trasferita in Italia, e giorno dopo giorno diventava una specie di missione per me parlarne e raccontare della guerra, di ciò che succede in luoghi molto cari a me.

  1. Per noi occidentali è inconcepibile, e quindi molto difficile, anche solo da pensare, il vivere sotto le bombe. Come si fa a resistere mentalmente in una carneficina del genere? A cosa ci si aggrappa? E poi, il titolo del tuo ultimo album (“Green Line”) racconta proprio la demarcazione tra le due zone di Beirut ai tempi della guerra civile. Altra situazione che, anche volendo, non riesco a rendere reale nella mia immaginazione. Tu che ricordi hai in merito a questa Green Line? Come si viveva questa demarcazione forzata all’interno della stessa città.

Per resistere alla guerra secondo me è proprio la speranza che domani tutto finirà e ci sarà la pace, purtroppo non è andato così, ogni giorno diventava peggio. Durante la guerra tantissime persone sono emigrate dal Libano soprattutto verso il Canada, Stati Uniti e Francia, in questi luoghi abitano tanti dei miei parenti e cugini. “Green Line” effettivamente era quella area di Beirut che la divideva in Est ed Ovest, queste due aree erano molto diverse tra di loro, una divisione socio culturale e soprattutto religiosa, io abitavo nella parte Est di Beirut, era molto pericoloso attraversare queste barriere per andare ad Ovest, non ho particolari ricordi di quell’area durante la guerra, perché noi rimanevamo nell’Est avevo li la mia scuola e la mia casa, mentre per esempio c’erano persone che abitavano all’Est e lavoravano nella zona Ovest, come è il caso della donna protagonista della mia canzone “Green Line” una donna coraggiosa, una madre, che attraversava ogni giorno queste barriere per andare a lavorare e poi ritornare a casa la sera. Il brano stesso “Green Line” denuncia l’assurdità della guerra, e scenari assurdi e surreali, come una donna incinta che ha in mano sacchi di frutta e verdura, sta correndo scappando dalle bombe e dovendo passare vicino a dei morti per strada con l’unico obbiettivo stare al riparo e poi ritornare a casa dai suoi figli e portargli il cibo. Questa è una donna guerriera come lo erano tutte le madri che vivono la guerra, lo si diventa, questa forza interiore e l’istinto di sopravvivenza è molto forte ed è impossibile da immaginare, purtroppo lo si vive per capire.

  1. L’idea che mi sono fatto, ascoltando entrambi i tuoi album, è che in te viva un’anima artistica al tempo stesso sia complessa che completa. Se non avessi scelto l’ambito musicale credo che saresti stata comunque in grado di portare a compimento il tuo percorso artistico tramite la poesia o la fotografia o qualunque altra forma d’arte. Posso pensare che questa tua caratteristica (peraltro molto rara) sia legata alle componenti genetiche e geografiche della tua provenienza? Come a voler dire che chi nasce e si sviluppa in un ambiente comodamente allineato agli standard del benessere occidentale difficilmente ha il fuoco dentro. Sei d’accordo? Pensi anche tu che nel dolore, nelle privazioni e nella sofferenza nasca e germogli meglio il seme dell’arte?

Effettivamente, sono attratta da varie forme di arte, oltre alla musica, anche la poesia, fotografia, disegno, pittura, scultura e danza, tutte le forme di arte si comunicano tra di loro. L’arte è come la magia, a volte non si può spiegare il processo creativo, di sicuro ogni persona ha il suo percorso. Nel mio caso, certamente facendo parte di una famiglia che ama l’arte è stato naturale per me, poi ho studiato architettura che mi ha permesso di esplorare altri aspetti, meditare e ragionare, mi ha insegnato a conoscere i luoghi e fare le ricerche sulla storia del popolo che ci vive, conoscere e preservare la natura come un bene prezioso e un ispirazione infinita. Nel frattempo, studiavo danza, canto, solfeggio e pianoforte, da parte mia c’era quel desiderio di esplorare e ricercare la bellezza. Il dolore, la sofferenza, la rabbia poi si trasforma nell’arte, l’oscurità è una transizione, un passaggio per arrivare alla luce. Non saprei dire dove e come si germoglia meglio l’arte, non c’è una formula penso, tutto dipende dalla persona e da come reagisce. Nonostante aver vissuto anni e anni di guerra, sono stata molto fortunata di non dover assistere personalmente a scene traumatiche della guerra, la mia casa ha resistito è sempre stata li ad aspettarmi, ci sono persone che hanno perso tutto, non saprei come reagirebbero, c’è chi vuole cancellare le tracce, dimenticare tutto, c’è chi ha pure un’amnesia.

  1. Divaghiamo un attimo e alleggeriamo la conversazione. Ci sono tanti riferimenti a quanto leggo online quando si parla della tua musica. Ognuno ha detto la sua. Tra tutti quelli che sono stati fatti quali sono i nomi che più ti hanno fatto piacere tra gli accostamenti e quali invece non sono stati “scovati” e che rimangono nascosti tra i tuoi ascolti preferiti?

Io apprezzo e ringrazio ogni critico musicale che ha dedicato il suo tempo ad ascoltare la mia musica e a trovare le influenze di musicisti di riferimento. Certamente quando si parla di Diamanda Galàs mi fa piacere perché effettivamente ho imparato molto ascoltando la sua musica e sperimentando con la mia voce, come anche ascoltando i video lezioni di Demetrio Stratos sull’uso della voce come strumento musicale. Tra i miei ascolti preferiti ce ne sono tanti e dipende dai periodi. Se c’è un gruppo e una persona che particolarmente mi hanno ispirata sono i System Of A Down e specialmente Serj Tankian non solo a livello musicale ma anche sui temi che trattano e loro attivismo nei confronti dell’Armenia e del riconoscimento del Genocidio Armeno, della protezione ambientale e altri campi dove ci sono ingiustizie nel mondo.

  1. Alla fine, rischiamo di parlare di tutto tranne che del tuo disco. Per cui lasciamo per un attimo da parte le nostre analisi storico sociali e andiamo dritti al tuo album. Presentalo a chi ancora non ha avuto la fortuna di poterlo ascoltare. Io ne ho fatto una lunga analisi in sede di recensione ma credo che tu, da dentro, possa dare le risposte definitive e inquadrare meglio di chiunque altro i tuoi brani. Lo spazio è tutto tuo, senza problemi di tempo e di censura raccontaci “Green Line”.

“Green Line” è un album che raccoglie tanti brani scritti da me un po’ di anni fa e che ancora non avevano avuto un uscita ufficiale, “Green Line” come detto prima è quella linea che divideva Beirut in Est ed Ovest durante la guerra civile, “Green Line” è anche un brano che era già uscito nel mio “Manifesto Anti-War”, ho voluto portare questo brano nell’album nuovo come filo conduttore che lega questo disco al mio lavoro precedente e continua ciò che era iniziato, i primi 5 brani sono dedicati alla mia città natale Beirut, raccontano storie e dettagli di guerra tramite gli occhi di una bambina. Storie che nessuna radio o TV racconterebbe perché non fanno notizia. “BL Express” il brano che ci introduce all’album, dove c’è anche il parlato iniziale che invita i passeggeri a salire a bordo di questa nave infernale dell’esperienza della guerra, questo primo brano racconta un viaggio in nave, nel buio, sotto i bombardamenti a scappare dalla guerra, dove oggetti, valige e scatole diventano contenitori di ricordi ma dove anche la vita umana purtroppo non ha valore, dove le persone muoiono, è una storia vera molto triste che mi aveva scioccata da bambina, dove nelle notizie le immagini della morte non hanno censura. Il viaggio prosegue con “Forêt Noire”, un omaggio a Marcel Proust e alla sua Madeleine, in questo caso è quella buonissima torta francese al cioccolato che innesca i ricordi e ci porta in questa via della città di Beirut dove le vetrine dei negozi erano coperti di sacchi di sabbia e blocchi di cemento armato, lasciando solo il passaggio stretto a scala umana, questi corridoi lunghi e bui con muri alti a destra e le vetrine a sinistra, questi muri diventavano le montagne da arrampicare e luoghi di gioco per i bambini che non volevano niente altro che giocare e vivere la loro infanzia, il brano denuncia l’infanzia rubata ai bambini ed è purtroppo ciò che succede in ogni guerra e i ricordi della guerra non saranno mai più cancellati. Diciamo che, ho selezionato meticolosamente la tracklist per creare una processione graduale nella storia e ogni brano ha trovato la sua collocazione nell’intero album e non c’è un brano che potrebbe essere sostituito con un altro, perché cambierebbe la logica e l’ordine delle cose. Questi pezzi di memoria sono ricostruiti dopo la distruzione e c’è un nuovo ordine, l’ordine delle parole e della musica. Il brano successivo è “Rooftops”, si tratta dei tetti piani calpestabili in cemento armato in tutti i palazzi di Beirut, questa costruzione dal modernismo di Le Corbusier, diciamo che le esperienze spazio-temporali dei brani e anche quello sensoriale potrei dire è grazie all’attenzione che ho acquisito analizzando, vivendo o ricordando un dato spazio / luogo. “Rooftops” racconta in maniera romantica e nostalgica la decadenza, dovrebbe essere un luogo degradato dove ci sono i cavi elettrici a vista come delle ragnatele, dove ci sono camini che evacuano il monossido di carbonio, e altre descrizioni di un luogo degradato ma grazie ai ricordi questo luogo diventa prezioso magico come per preservare e soprattutto idealizzare quest’infanzia, dove ancora  ci sono questi bambini che hanno acceso un fuoco e saltano e ballano intorno al fuoco mentre c’erano i bombardamenti che illuminavano il cielo, un’altra notte molto particolare da ricordare. “Abri” racconta l’esperienza di questi scantinati dove si scappava e ci si nascondeva dalle bombe, in questo particolare caso si tratta di una falegnameria di mobili di lusso, un brano molto ironico, perché in una guerra e sotto le bombe i mobili di lusso non sono una priorità, inoltre in questo scantinato c’erano famiglie intere che dormivano per terra scappando dalle bombe ma in realtà stavano pian piano intossicando con gli odori della vernice e della colla. “Nora’s Tree” è un brano che racconta di quest’albero che è cresciuto ed è sopravvissuto tutti gli anni della guerra, il brano racconta anche come le persone si adattano alla guerra e cercano di trovare soluzioni, per esempio negli anni ’80 quando non c’era l’elettricità c’erano le candele per illuminare e poi le lampade a gas dei campeggi, poi si illuminava con le batterie della macchina mentre negli anni ’90 c’erano i generatori di quartiere, stesso discorso con la scarsità dell’acqua che si cerca di trovare soluzione. Il brano denuncia la crudeltà dell’uomo, quest’albero poi è stato abbattuto per qualche motivo come tanti alberi vengono abbattuti per costruire. Dopo questo blocco di brani ci sono brani più introspettivi, con varie tematiche dall’ossessione alla follia, all’amore come “Devil’s OB”, “Your Sin”, “Weight of Pain” e “DK” quest’ultimo parla della decadenza, quanto il tempo è effimero, potrebbe essere un omaggio a Baudelaire.

Poi c’è una specie di ritorno, con il brano “Y” che è ispirato a scene dal libro di mio nonno “La Tragedia del Armeni di Behesni 1914-1918” pubblicato a Beirut nel 1956. Questo brano essendo il secondo singolo uscito ha il suo video dedicato che trovate in rete in collaborazione con il regista Enrico Fappani, anche il brano “Devil’s OB” ha un video dedicato essendo il primo singolo, sempre in collaborazione con il regista Fappani. “White Angel” è l’unico brano scritto in Marzo 2020 in pochissimo tempo ed è dedicata a una persona speciale che è stata uccisa insieme ad altre persone in un massacro per rapina, gli assassini sono ancora liberi. Infine, il brano “Green Line” conclude l’album e dà il nome al disco. Esattamente come il brano “Manifesto Anti-War” ha chiuso l’album con lo stesso nome.

  1. Oggi si tende a discriminare in modo abbastanza frettoloso e netto chi la pensa in modo diverso. Basta guardare alle divisioni in merito alle vaccinazioni per il covid-19 e il Green Pass. Tu che le divisioni, quelle vere, quelle che lasciano cicatrici indelebili sulla tua pelle, le conosci fin troppo bene, come vivi questa situazione italiana così assurdamente grottesca? A volte non posso non pensare, quando si parla di Green Pass, all’associazione mentale quasi immediata che faccio (involontariamente?) con la Green Line di Beirut. E mi chiedo quanto siamo distanti dal fare il passo oltre il quale non si torna più indietro.

E una situazione pazzesca, certamente il lockdown che c’è stato non ha niente a che fare con i giorni e le notti trascorse negli scantinati senza elettricità e acqua. Decisamente è una pandemia che sta andando avanti da tanto tempo e purtroppo è ancora lungo, spero tanto che si ritornerà presto a una normalità. C’è un terrorismo mediatico e psicosi collettiva ma ci sono anche tante persone che purtroppo non ci sono più e ci sono state tante vittime. Spero solo che tutto quest’incubo finirà presto e si ritornerà a suonare la musica dal vivo e a riprendere le cose che sono rimaste in sospeso.

  1. Per una persona che come te viene dall’estero che idea emerge del nostro paese? Io sono inevitabilmente condizionato dal fatto che qui ci sono nato e che probabilmente, forse neanche tra molto tempo, ci morirò. Ma tu, che lo vivi in modo più distaccato di me, avendo un legame di sangue con un’altra terra, che idea ti sei fatta dell’Italia? Ti confesso di aver provato spesso imbarazzo per le scelte politiche soprattutto nelle politiche sociali. Per te in quanto italiana d’adozione quanto siamo ancora distanti da una società degna di essere chiamata tale? Per non parlare poi della musica e delle discipline artistiche.

L’Italia è un bellissimo paese ricco di storia, cultura, bellezza, luoghi naturali e architettonici. Diciamo che all’inizio non è stato facile per me, ma poi sono riuscita a trovare un percorso da seguire, anche nell’ambito musicale ho conosciuto tanti amici musicisti con i quali ho collaborato e queste esperienze mi hanno arricchita; menziono i No Strange i grandi maestri di musica (Alberto Ezzu e Salvatore D’Urso) con i quale ho collaborato nel loro album “Mutter Der Erde” nel brano “Kilikia” che è un canto popolare armeno del grande Komitas, il mitico Osvaldo Schwartz delle Officine Schwartz con il quale ho fatto una collaborazione live insieme anche al grande musicista e poeta Michele Gazich, oltre al live ho collaborato nel brano “Maltamé” del suo precedente album e anche nel brano “Argon” e “Fiume Circolare” dal suo recente album “Argon”, per la presentazione di quest’ultimo album ho avuto l’onore di condividere il palco dell’auditorium del Vittoriale degli italiani con questi grandi musicisti. Ho collaborato anche nell’album di Francesco Paladino che ha curato anche il video del mio brano “Manifesto Anti-War” insieme all’artista contemporanea Maria Assunta Karini. Alcuni concerti con Nicola di Caprio con la band Sparks che ha visto anche ospiti come il grande sassofonista Sabir Mateen e Angelo Contini al trombone.

Ci sono delle bellissime persone che vivono in Italia e mi hanno dato una mano, a distanza di lunghi anni che vivo qui, considero l’Italia casa mia. Pensando anche al disastro che sta vivendo il mio popolo in Libano, li si che la corruzione è all’ordine del giorno, e si vive tanto male. Devo anche riconoscere che conosco tante persone italiane, tante associazioni, che stanno facendo molto sia per l’emergenza in Libano che per l’Armenia e devo dire che non è scontato tutto questo. Ogni evento, ogni concerto, è un’occasione per conoscere nuove persone che poi diventano degli amici. Menziono anche il grande compositore Federico De Caroli (DECA) con il quale ho collaborato recentemente per una versione alternativa del mio brano “Weight of Pain” che potete ascoltare in rete.

  1. Si dice spesso, e questo lo ricordi anche tu nel tuo disco, che l’uomo alla fine, anche in mezzo alle difficoltà riesce ad adattarsi a tutte le situazioni, anche le peggiori. Io credo che questo sia tutto tranne che un qualcosa di cui andare fieri. Che futuro abbiamo se alla fine riusciamo ad abituarci anche alla guerra, alle discriminazioni e alle violenze, soprattutto se contro le donne? Tu che hai una visione privilegiata, dammi un qualcosa per sperare in un domani diverso da quello che stiamo tristemente vivendo. Io credo che un conto sia adattarsi alle situazioni per sopravvivere e un altro considerarle alla lunga alla stregua della “normalità” e vivere quindi passivamente anche mentalmente. Che ne pensi?

Purtroppo, durante lunghi anni di guerra ci si adatta proprio per sopravvivere, ma non si può accettare di vivere nella corruzione, ripeto come quello che sta succedendo in Libano, dove le persone non hanno accesso alla sanità gratuita, alle medicine, all’energia, all’acqua, non si può accettare di vivere cosi, purtroppo ci sono persone che sono costrette o cercano di trovare soluzioni e adattarsi. Io penso, il ruolo di ciascuno di noi è denunciare, parlarne, mettere alla luce le questioni che purtroppo non se ne parla in telegiornali o in radio, perché non fanno notizia, e perché non ci sono interessi al riguardo. Un artista è lì anche per questo, per denunciare e ribellarsi, raccontare, urlare se serve …

  1. Ultima domanda, nata ascoltando e riascoltando il tuo disco. Cercando quindi di entrare quanto più possibile in profondità dentro “Green Line”. Quanto è importante per te il silenzio?

Il silenzio è fondamentale, nella musica serve anche per valorizzare il suono, per esprimere un’idea, ci sono dei momenti dove il silenzio comunica molto di più rispetto a qualsiasi parola o urla. Contiene dentro di sé tanta forza, il silenzio è anche quel momento introspettivo che aiuta a meditare.

Grazie per queste domande cosi approfondite e ricche.

Dedico quest’intervista al mio dolce padre Hovsep Tekeyan che illumina il mio percorso.

Rita Tekeyan

 

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