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Recensione : Last Call At Night Owls – Ask The Dust

LAST CALL AT NIGHTOWLS Ask The Dust: La distanza quindi non annulla la determinazione, anzi, riesce a rendere tutto ancor più stimolante.

Last Call At Night Owls – Ask The Dust

Si potrebbe essere portati a pensare alle distanze come a degli ostacoli. Soprattutto in casi come quello dei Last Call at Nightowls, progetto nato dall’unione di Adriano Vincenti (Cronaca Nera, Detour Doom Project, L’Amara, Macelleria Mobile di Mezzanotte e Senketsu No Night Club) e del suo attuale partner in crime Giovanni Leonardi (Carnera, L’amara, Senketsu No Night Club e Sigfried).

Come se la distanza tra l’Emilia e il Lazio non fosse già abbastanza, i due per dare vita, forma e sostanza al progetto decidono di reclutare gli altri due membri nell’altro emisfero. Scelgono infatti di collaborare la sassofonista messicana Maria Ruvalcaba Uribe ed il polistrumentista australiano Terry Vainoras (Subterranean Disposition, Order of Chaos, Vainoras and the Altar of the Drill e Neon Dread).

La distanza quindi non annulla la determinazione, anzi, riesce a rendere tutto ancor più stimolante. Ne consegue ovviamente che l’attività live del progetto ne risulti compromessa, ma sono dell’idea che il riscontro derivante dalle esibizioni dal vivo non sia nelle corde del quartetto. Il loro obiettivo non lo vedo nella ricerca spasmodica di date con cui portare in giro il concept dell’album. Mi piace pensare invece a Last Call at Nightowls come a un’entità che va oltre la dimensione del palco su cui esibirsi.

È un qualcosa di più intimista e metafisico. È un qualcosa che trascende il corpo e parla direttamente al cuore e quindi alla mente. Un album che risulta quanto mai adatto a giorni come questi in cui siamo costretti a fare i conti con noi stessi, in cui non possiamo più mentire nel guardarci allo specchio, in cui è forte il bisogno di ammettere le nostre colpe.

Quale miglior colonna sonora di “Ask the Dust” quindi per provare a venire a patti con il destino?

Nessuna per come la vedo io. L’album rappresenta infatti, con le sue atmosfere sognanti [che io identifico in un fascinosissimo bianco e nero] quell’immaginario oscuro in cui coinvogliare i pensieri di queste nostre notti insonni passate a cercare un motivo per dormire sonni tranquilli. Con la sua sublime e claustrofobica tristezza “Ask the Dust” riesce a dare forma concreta a tutti i miei incubi più reali.

Lo hanno descritto come un album “cinematografico”. Ma io preferisco, partendo proprio dal titolo e quindi dal riferimento all’omonimo libro di John Fante, pensarlo come a un qualcosa che nasca e si sviluppi in quella Bunker Hill dove l’autore ha ambientato i propri romanzi. È quindi un disco letterario, legato all’immaginario nascosto dentro ognuno di noi. Troppo semplice pensarlo come corollario ad immagini già viste fin troppe volte.

Che sia, grazie alle sue atmosfere rarefatte in cui si incastrano alla perfezione i due sassofoni, un album “notturno” ci sono davvero pochi dubbi. Armonie e dissonanze si prendono, si perdono e si ritrovano per tutta la durata del disco. Tra momenti free jazz e noir in cui la “forma canzone” perde di significato slegandosi dai cliché legati alla costruzione di un brano. È qui, in questo alienarsi da tutto ciò che rappresenta l’aspetto conosciuto e quindi “sicuro” che trovo ciò che cerco e ciò che mi permette di innamorarmi di un disco come questo.

Il “freddo nelle mie vene” dell’ultimo brano mi porta a pensare che la chiusura del disco possa essere vista non solo come l’epitaffio di questo primo episodio ma come un incipit di ciò che potrebbe accadere nel momento in cui dovesse arrivare un seguito ancor più oscuramente offuscante di questo superbo “Ask the Dust”.

Nelle note legate al disco si legge che i Last Call at Nightowls descrivono il loro album come un oscuro viaggio al centro della notte dove si perdono i confini tra sogno ed incubo. Ci sentiamo di essere d’accordo con loro, ma ci spingiamo oltre, pensando a “Ask the Dust” come a un disco di cui morire, nella solitudine e nel silenzio dei nostri pensieri. Quella stessa solitudine che John Fante individuava come una polvere da cui non cresce nulla, una cultura senza radici, una frenetica ricerca di un riparo, la furia cieca di un popolo perso e senza speranza alle prese con la ricerca affannosa di una pace che non potrà mai raggiungere.

(Subsound Records)

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