Quando sai che è fuori un nuovo album dei Jesus Lizard, leggende (ok, termine inflazionato ma, nel loro caso, non è assolutamente usato a sproposito) della scena noise/post-hardcore mondiale, parte in automatico il suo inserimento tra i migliori dischi dell’anno, e lo ascolti con gli occhi (e le orecchie) a cuore.
La benemerita Ipecac Recordings, il mese scorso, ha rilasciato il settimo long playing complessivo realizzato da David Yow e compari – tra gli alfieri di quella prolifica stagione a cavallo tra Eighties e Nineties che, dopo l’esplosione commerciale del fenomeno “grunge”, vide l’underground del rock indipendente statunitense “sfondare” nel mainstream e trasformarsi in overground, un’epopea (?) di cui i Jesus Lizard indirettamente beneficiarono in termini di crescita di popolarità quando Kurt Cobain li richiese per pubblicare uno split single insieme ai Nirvana nel 1993, “Puss/Oh! The guilt“, probabilmente facendo toccare ai Lizard il punto più alto della “fama” presso il grande pubblico – “Rack“, il primo del gruppo nel nuovo millennio. Album reunion? Ma manco per il cazzo, perché i Lucertoloni (che devono il loro moniker ai basilischi crestati, rettili capaci di correre sulle acque e che, secondo la leggenda della mitologia europea, un tempo sarebbero stati in grado di uccidere o tramutare un uomo in pietra con il loro sguardo diretto negli occhi) riprendono il discorso interrotto ventisei anni fa con “Blue” (forse il capitolo meno riuscito della loro discografia, arrivato nel loro “periodo major” non proprio felicissimo) senza perdere un grammo della loro proverbiale ferocia sonora, oggi solo mitigata e “ingentilita” dal trascorrere del tempo carogna che non fa sconti a nessuno – i ragazzacci hanno oltrepassato le sessanta primavere -. Ma i quattro texani (oltre al frontman Yow, ritroviamo Duane Denison alla chitarra, David Wm. Sims al basso e Mac McNeilly alla batteria) sanno ancora picchiare duro, in direzione ostinata e contraria, e restano fedeli alla loro identità imbastardita di marciume sonico (non a caso, sono stati tra i pupilli del compianto Steve Albini).
Rinnovata la “tradizione” di dare un titolo di quattro lettere a ogni long playing del combo (con tanto di copertina raffigurante un dipinto realizzato dall’artitsta inglese Malcolm Bucknall, tra l’altro non nuovo a collabrazioni con la band) basta la sola opener “Hide & seek” a spazzare via tutto l’imperante fighettume dei revival indie e post-post-punk, con la dinamitarda sezione ritmica di Sims e McNeilly a pestare sodo e la chitarra abrasiva di Denison che non concede mai assoli da sborone ipertecnico (se volete quelli, andatevi a sentire Malmsteen e altra robaccia simile) ma ti spacca i timpani, sui quali deraglia il “canto” stralunato e schizzato di Yow. Se in “Armistice day” e “What if?” i ritmi si fanno più rallentati e melmosi (ma ugualmente elettrizzanti, con uno Yow che oscilla tra il ruolo di predicatore e narratore spoken word) con “Grind” e “Lord Godiva” (infognata dal latrato disperato e paranoico di Yow) si torna sui lidi noise rock burini. Il “lato B” è aperto dalla basso-centrica e rocciosa “Alexis feels sick” (una delle gemme dell’Lp, fluttuante e mutevole nel suo incedere), “Falling down“, “Dunning Kruger“, “Moto(R)” e “Is that your hand?” infuriano nel loro noise-punk che non fa prigionieri, mentre la chiusura è affidata al vigore delle trame ossessive di “Swan the dog“.
They might not be young, but they will never, ever get fucking old. Alla fine della fiera ne è valsa la pena? Sì, ne è valsa la pena di aspettare cinque lustri per godere di un nuovo, devastante, album dei Jesus Lizard. Certo, non siamo più ai livelli dei loro capolavori “Goat“, “Liar” e “Down“, però si gode lo stesso e la loro natura fracassona e attitudine sarcastica, aggressiva, perversa e nichilista non è andata smarrita. Finalmente i nostri, l’anno prossimo, torneranno anche a suonare dal vivo per tre date in Italia. E noi, nell’attesa di rivederli, siamo allupati come la loro mascotte. E ora dai, David, torna a incendiare i palchi col cazzo de fora!
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