Stralunati, imprevedibili, scanzonati, geniali, spigolosi, folli, outsider, pionieristici: tutto ciò sono (stati) gli Half Japanese, veterani art punkers del Maryland, un ensemble tra i più originali e irregolari della stagione del post-punk di fine Seventies (ma formati addirittura nel 1974 dai fratelli David e Jad Fair, che hanno debuttato a inizio Eighties con un triplo album, “1/2 Japanese Not Beasts“) che poi ha forgiato e ispirato la scena DIY/noise/lo-fi/alternative rock statunitense (con pubblici attestati di stima arrivati nei loro confronti da parte di Kurt Cobain e Daniel Johnston) dei decenni successivi, col chitarrista e frontman Jad Fair (e le sue infinite collaborazioni con svariati artisti quali lo stesso Johnston, J. Mascis, Richard Hell, Teenage Fanclub, The Pastels, Thurston Moore, Moe Tucker, John Zorn, Yo La Tengo e altri) consacrato a paladino dell’indie rock mondiale.
Il mezzo giapponese è un progetto che, tra pause e reunion, va avanti da quasi mezzo secolo, e non accenna minimamente a voler chiudere baracca, infatti quest’anno ha dato alla luce “Jump into love“, ventesimo studio album dei nostri (Jad Fair coadiuvato da John Sluggett, Gilles-Vincent Rieder, Mick Hobbs e Jason Willett alle chitarre, al basso, alle tastiere e alle percussioni) uscito su Fire Records e arrivato a tre anni di distanza dal precedente capitolo, “Crazy Hearts“.
Registrato tra Europa e States, il disco è caratterizzato dal consueto caleidoscopio di colori e sonorità variegate che spaziano dalla sarabanda free-form jazz à la Pere Ubu nell’opener “It’s OK” al post-punk concitato in stile Fall in “True love will save the day” a quello più sfaccettato e angolare in “Here she comes“, “The answer is yes” e “This isn’t funny“, dalla world music di matrice Talking Heads in “Listen to the bells chime“, all’alt. rock dal sapore Nineties in “We are giants“, a incursioni nel “baggy” sound della MADchester di Happy Mondays e affini in “Shining sun“, al proto-punk distorto di MC5 e Stooges in “Shining stars“, da suggestioni dark/goth psych in “Step inside” al folk distopico della conclusiva “Zombie world” che rovescia il feeling di pace e amore universale che trasuda entusiasticamente dai suoni “tribali” della title track, a sovvertire le regole di un long playing che si nutre di emozioni contrastanti, com’è sempre stato nella natura musicale del gruppo.
Jad Fair è vivo e lotta (e suona) insieme a noi, e se qualcuno cerca ancora di capire dove abiti e risieda ancora oggi l’essenza dell’indie rock (quello vero) americano (e non) citofoni lui.
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