(La Tempesta Dischi 2009) – Ecco un bel disco! Ecco davvero un bel disco. Dopo una sfilza di mediocrità estive, eureka!
Eppure l’impatto iniziale forse perché non amo le minestre scaldate, forse per altro, nonostante la sognante cover ed il titolo di pindarica reminiscenza, non si può dire sia stato dei migliori.
Che i Frigidaire Tango siano infatti tra i pionieri di quella nebulosa wave eighties tutta italiana, malaticcia e suburbana, travolta com’era stata dal ciclone krautrock e devastata da Joy Division e Raincoats è storia.
Così come figurerebbe tra gli annali anche qualche prestigiosa open-act a bands del calibro dei The Sound. Eppure qualcosa non funzionò perchè i nostri non scalarono mai le vette delle classifiche, nonostante fossero destinati a farlo, non mancando la loro ricetta di alcun ingrediente. Synth non occasionali, scrupolosi e trasognati, melodie inguaribili tessute da chitarre isteriche e possenti oltre che la quasi totale assenza di quella auto-referenzialità speciosa e indisponente. Inspiegabile, a meno che non si voglia appunto ricondurre il tutto ad una vampa di amor patrio, emulo del protezionismo della reaganomics.
Antefatto: correva l’anno 1982. Ed è un dato significativo, credetemi! Di lì a poco l’undici di Bearzot avrebbe vinto i mondiali e Sandro Pertini, presidente emerito, avrebbe scosso l’eroico ardor in un focolaio di patriottismo con quell’esultanza compita e commovente di un anziano e buono presidente partigiano che applaudiva la sua Italia vincente.
Chissà? Probabilmente si, ma davvero oggi mi chiedo quanto cantare The Presage o Blue&Pink sia stato d’aiuto a questa band piuttosto che incensarsi con il perdifiato “Eroi nel vento“ dei contemporanei Litfiba, di certo più a tema con le galoppate del buon Tardelli. Adesso che mi rigiro tra le mani un disco coraggioso, a tratti epico e cantato in italiano, tutto sembra più chiaro. Non so quanto Carlo Casale sia più capace di Charlie Out Cazale ma dopotutto ciò che resta è la musica e quella soltanto. E qui è di buon livello, statene certi, facilmente assimilabile al periodo berlinese di Bowie piuttosto che ai Roxy Music di Brian Ferry ma mai aderente in maniera gratuita e sempre con picchi di originalità di indubbio valore.
Sembrano già di per se i FT a darci infatti la chiave di lettura tra le righe delle loro liriche lungo l’ascolto di questi 14 pezzi a tratti addirittura commoventi. Cedono spesso al vizietto post (coadiuvati anche dalla collaborazione di Giorgio Canali) pur senza quella patina auto commiserevole di talune reunions. L’outro convulso della open “Milioni di parole” incarica una chitarra allucinata ad emettere un urlo mesmerico, presagio di una nuova alba: ”milioni di parole…già scritte non saranno mai abbastanza per farmi smettere di provarci” credo siano da sole sufficienti ad orientarci in tal senso.
Probabilmente più fedeli alla linea di quanto non lo fossero gli originali in “Mescola la razza” toccano temi attualissimi con un melting pot di suoni eclettico e disinvolto, ove digressioni percussive incontrano corposi e virulenti riffs chitarristici. Qualcosa che ha ispirato, tra gli altri, degni eredi quali i Massimo Volume o i Marlene Kuntz.
Non manca tuttavia la ballata introspettiva od il pop “radio friendly” (L’acqua pensa, Soffia, Poesia di luce) così come non ci si lascia mai prendere la mano nel rock canonico e senza spunti come potrebbe sembrare a primo acchito quello de “Le cose capite” o nel classicone wave “Natural Mente” in cui mentissi a me stesso se negassi di scorgervi un Tricarico meno arty e più post. Suoni in lizza per la modernità con cui droni industriali su basi psichedeliche (Preghiera) o inedite colonne sonore (New Wave Anthem) dipingono lo scenario inquietante di una società futurista conditi con beat elettronici ed evoluzioni noise (Dreamcity). Nulla di avanguardistico, si badi, ma neanche dal sapore rimasticato come taluni esperimenti simili.
Insomma un credo da urlare a squarciagola convinti che questa volta il volo non sia davvero sola illusione. In bocca al lupo, Frigidaire.
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