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Recensione : Alessandro Volpi – La Rivoluzione Mancata

La scomparsa di Demetrio Stratos e il difficile rapporto tra musica e politica negli anni settanta

Alessandro Volpi – La Rivoluzione Mancata

Siamo dell’idea che tutti i magazine musicali italiani debbano continuare ancora oggi dedicare una copertina a Demetrio Stratos. Almeno una volta ogni tanto. Il fatto che le testate specializzate più popolari invece preferiscano ora riservare spesso la prima pagina a Kossiga, Kolors o Brunori Sas, fa pensare che forse qualcosa è andato storto.

A volte ci viene voglia di capire qual’è il momento in cui si è invertita la rotta.
La rivoluzione mancata di Alessandro Volpi è un libro che sicuramente ha un punto di vista e delle convinzioni che spesso non riusciamo a condividere. Leggendolo però si finisce quasi involontariamente per cerchiare in rosso situazioni e condizionamenti che, almeno secondo l’autore, negli anni’70 potrebbero aver ostacolato il pieno corso di una rivoluzione culturale e musicale che solo in minima parte ha cambiato il paese. Con un lavoro di ricostruzione incredibilmente dettagliato ed esauriente, del resto, Volpi ripercorre la cronaca di tutti i grandi concerti che furono organizzati o fatti cancellare nel periodo dei grandi Area di Stratos, riconoscendo soprattutto nel Pci e nei movimenti di protesta politicizzati un freno alla piena realizzazione di una stagione artistica irripetibile. Secondo l’autore, il complesso patrimonio culturale e simbolico che negli Stati Uniti e in gran parte dell’Europa era sinonimo di liberazione, in Italia fu considerato un pericoloso diversivo rispetto ai temi dell’impegno. L’ostracismo contro temi considerati troppo frivoli del rock americano da parte di via delle Botteghe Oscure e la lotta contro il caro concerti da parte dei movimenti dal basso avrebbe fatto si che all’ansia di cambiamento di quegli anni sia mancata forse una colonna sonora che l’abbia imposta a sentimento collettivo. Come se i gruppi rock nostrani non abbiano potuto contare su una piattaforma per i live abbastanza grande per affiancarsi e spodestare il circuito mainstream ufficiale di Tozzi o Morandi. Oltre a descrivere come non sia più stato possibile organizzare happening oceanici come all’estero e le dure contestazioni (se non i processi veri e propri) che hanno dovuto subire molti nostri cantautori per essersi allontanati dall’ortodossia di partito, Volpi rielabora un resoconto dettagliato anche delle difficoltà per addetti e appassionati nel seguire i propri beniamini su fanzine o realtà irripetibili come il Re Nudo. Nonostante i disordini e gli scontri ai concerti di Lou Reed o Led Zeppelin, che condanniamo, rimaniamo dell’idea che proprio in quegli anni l’Italia abbia prodotto il meglio a livello culturale e che non è un problema se non si è fatto di più. Non vorremmo essere retorici, ma il paese ha sofferto di problemi ben più gravi di quello di avere tutta la discografia al completo dei Van der Graaf Generator. Gli anni ’70 hanno lasciato sul campo decine di vittime per gli scontri ideologici e forse era scontato che tutto, persino Battisti o Celentano, finisse per essere posizionato. Quello che non capiamo del libro è la continua critica al Pci o ai movimenti per non aver appoggiato il fermento culturale reale, quando manca un’analisi sulla censura del sistema ufficiale o della Dc nei confronti degli Area o degli Stormy Six. Sarà che ora, con la moda dei talent show, assistiamo ad una brama imbarazzante di voler far parte del music business, a qualunque costo. Non rimpiangiamo i processi collettivi a De Gregori, ma se ci fosse anche oggi una stampa o una base politica che alimentasse una critica culturale invece che lanciarsi un forme di sarcasmo acrobatico su facebook non ci dispiacerebbe affatto. Detto questo, La Rivoluzione mancata è un libro che va apprezzato proprio per il modo, se vogliamo anche non equilibrato, con cui rilancia la discussione. Interessante anche il modo in cui riporta l’arrivo del periodo del riflusso negli ’80, quando i divi musicali cominciarono a non essere più né leader né interpreti di grandi messaggi, quanto icone dell’immaginario comune interamente costruite su una straordinaria capacità di fascinazione estetica.

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