iye-logo-light-1-250x250
Webzine dal 1999
Cerca
Close this search box.

Recensione : Agalloch – The Serpent & The Sphere

Gli Agalloch confermano con questo disco d’essere ormai da tre lustri una delle realtà più stimolanti del metal mondiale, al di là delle suddivisioni di genere.

Agalloch – The Serpent & The Sphere

Parlare di un lavoro degli Agalloch può essere molto semplice, perché riguardo ad una band in circolazione da quasi vent’anni e con all’attivo una discografia di tale qualità si potrebbe scrivere tranquillamente un libro; nel contempo valutare la reale consistenza di ogni uscita è tutt’altro che banale, visto che John Haughm e soci ci hanno abituati, nel corso degli anni, a frequenti cambi di direzione pur mantenendo sempre un sound del tutto personale.

Detto subito che, per quel che vale la mia opinione, la band di Portland ha raggiunto le sue vette compositive nello scorso decennio con la magnifica accoppiata “Ashes Against the Grain” / “The White Album”, che ne mostrava senz’alcun filtro i diversi volti, da quello black-doom atmosferico del full-length fino al folk cristallino del successivo Ep.
Negli anni seguenti gli Agalloch hanno continuato a proporre, come d’abitudine, una valanga di materiale dal quale estrapolerei, a titolo esemplificativo, un album relativamente opaco come “Marrow Of The Spirit” e il ben più convincente Ep “Faustian Echoes”; questo nuova uscita su lunga distanza, che in fondo è solo la quinta con questo formato, mostra la band in ottima forma ma, probabilmente, dividerà i fan della band visto che lascia emergere una maggiore orecchiabilità di fondo, riconducibile al post-metal meno cervellotico, cosa che a mio avviso è assolutamente apprezzabile.
The Serpent & the Sphere, nel corso della sua ora di durata, probabilmente non raggiunge i picchi qualitativi dei lavori che ho citato come i migliori della vasta discografia della band statunitense, ma si rivela ugualmente ricco di episodi capaci di riconciliare l’ascoltatore con il mondo circostante, grazie ad aperture melodiche ariose e di grande impatto emotio, come avviene nei tre brani portanti dell’album, l’opener Birth and Death of the Pillars of Creation, la magnifica Dark Matter Gods, e il lungo strumentale Plateau of the Ages.
La componente folk ambient non viene tralasciata e contribuisce alla riuscita del lavoro, sia caratterizzando le tre brevi tracce strumentali riconducibili al titolo dell’album (Serpens Caput, Cor Serpentis e Serpens Cauda), sia disseminando di delicati arpeggi acustici anche i rimanenti brani.
Per quanto mi concerne, The Serpent & the Sphere non è sicuramente il capolavoro degli Agalloch ma resta lo stesso un gran bel disco, il cui ascolto non annoia e risulta appagante dalla prima all’ultima nota; la peculiarità del sound di questa band è fuori discussione e limitarsi a misurare col bilancino del farmacista se questa o quella componente sia più o meno preponderante, alla fine si rivela un’operazione piuttosto stucchevole.
In definitiva, gli Agalloch confermano con questo disco d’essere ormai da tre lustri una delle realtà più stimolanti del metal mondiale, al di là delle suddivisioni di genere.

Tracklist:
1. Birth and Death of the Pillars of Creation
2. (Serpens Caput)
3. The Astral Dialogue
4. Dark Matter Gods
5. Celestial Effigy
6. Cor Serpentis (The Sphere)
7. Vales Beyond Dimension
8. Plateau of the Ages
9. (Serpens Cauda)

Line-up:
Don Anderson – Guitars, Piano, Vocals (backing)
John Haughm – Guitars, Drums, Vocals (lead)
Jason William Walton – Bass
Aesop Dekker – Drums

AGALLOCH – Facebook

Get The Latest Updates

Subscribe To Our Weekly Newsletter

No spam, notifications only about new products, updates.
No Comments

Post A Comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE

My Dying Bride – A Mortal Binding

A Mortal Binding è un lavoro tutt’altro che scontato e superfluo e testimonia quanto una band come i My Dying Bride che, piaccia o meno, ha fatto la storia, abbia tutto il diritto di continuare a riproporre con grande dignità, competenza e coerenza quel sound peculiare che, parafrasando la copertina di un noto periodico italiano, “vanta innumerevoli tentativi di imitazione”.

Eventide – Waterline

Gli Eventide offrono una versione dell’ambient drone intrisa da corpose sfumature jazz e sempre in grado di attrarre l’attenzione rifuggendo ogni stucchevolezza.

Faal – Fin

Fin merita d’essere ascoltato e apprezzato quale prova delle capacità di una band la cui fine lascia più di un rimpianto, non solo per l’irreparabile perdita umana ma anche perché, per il potenziale espresso, avrebbe meritato maggiore attenzione rispetto a quella ottenuta lungo una quindicina d’anni di attività.

Hamferð – Men Guðs hond er sterk

Il sound della band di Tórshavn è talmente peculiare da sfuggire ad ogni tentativo di sommaria classificazione: il tutto avviene senza il ricorso a chissà quali soluzioni cervellotiche in quanto gli Hamferð mettono il loro smisurato talento al servizio di un lirismo che, oggi, è appannaggio solo di pochi eletti.