Hemelbestormer – The Radiant Veil
Gli Hemelbestormer sono una realtà ormai decisamente consolidata. Arrivano al decennale con un album che ce li mostra ancora una volta pienamente a fuoco, arroccati intorno alla loro idea di metal strumentale, da cui non sembrano volersi discostare, ma che continuano, quasi impercettibilmente a modificare, aggiungendo di volta in volta dettagli in grado di ampliare e aumentare qualitativamente la loro proposta. “The Radiant Veil” (Pelagic Records) è il loro quarto album in dieci anni, ma è soprattutto quello che, ad oggi, sembra il meglio orchestrato.
Per certi versi quasi sofisticato, il disco rappresenta il viatico perfetto per sposare la loro scelta sonora mai banale, ma forse proprio per questo ancor più intrigante.
Soprattutto quando cerca di mettere in scena l’eterna rappresentazione tra il bene e il male, la luce e il buio, e tutte le altre dicotomie che si reggono su di un contraltare esattamente opposto, ma di cui non si può fare a meno. L’album, costruito intorno ad un viaggio interstellare, è un crescendo di sonorità atmosferiche e ricercate che guardano all’introspezione sonora come climax all’interno di un trip imponente e monolitico di grande impatto.
Concettualmente ispirato dal sistema solare conosciuto ai tempi degli Etruschi, “The Radiant Veil” non nasconde un piglio quasi apocalittico che deve farci propendere per un ascolto attento volto a scorgere tutte le sfumature di cui si compone.
I Owe This Land A Body – Cowards That Be
Ci sono realtà che varcano il confine di quel mondo nel quale mi sono rinchiuso. Spesso lo fanno nei modi più strani e inattesi, finendo per conquistarsi immediatamente tutte le mie attenzioni. Tra le tante sollecitazioni che, nella prima parte di questo terribile 2025 ho scoperto in modo casuale, non posso non citare anche gli statunitensi I Owe This Land A Body, e il loro EP di debutto “Cowards That Be”. Online non sono molte le notizie che si possano reperire, per cui andiamo avanti senza uno straccio di bio o di informazioni, un pò come si faceva una volta quando non esisteva internet, e soprattutto non esistevano gli uffici stampa.
Parte integrante nella lotta contro le discriminazioni di genere, la band rappresenta una delle voci nuove nella scena statunitense hardcore che guarda alle realtà queer e trans, che sta uscendo dalla sua nicchia e sta allargando il suo bacino di utenza nel nord del continente americano. La loro, quindi, non può che essere una rabbia (sonora e non) che necessita di essere urlata in ogni occasione che si presenti, e che possiamo far rientrare in quel sottogenere che gli SLOG hanno coniato per loro e per tutto il movimento che segue le loro gesta, vale a dire il “Tranny shitpost hardcore”.
E non è nemmeno un caso che entrambe le realtà (SLOG e I Owe This Land A Body) arrivino proprio da quel Minnesota tanto attento alle esigenze delle comunità transgender.
Da un punto di vista più pratico l’EP si caratterizza per un assalto sonoro dirompente che rischia di lasciare annichiliti anche i più avvezzi a un certo tipo di sonorità. Cinque brani che mostrano le capacità di una realtà che sta bruciando le tappe grazie ad una visione di insieme che raramente si riscontra nei dischi di esordio.
Sarmat – Upgrade
Quello della I, Voidhanger Records è un nome che amo spendere su :: acufeni :: Le proposte della label nostrana, al netto di una radicata base di extreme metal che accontenta i più oltranzisti e meno inclini alle sperimentazioni, sono da sempre allettanti, soprattutto quando vanno in controtendenza alle ottusità di cui sopra. Tra le tante, i Sarmat sono ormai una delle certezze con cui convoliamo piacevolmente a nozze.
La band statunitense arriva alla terza uscita, dopo il debutto del 2023, e lo fa con un EP di due soli brani, per un totale di 21 minuti complessivi. Due tracce per ribadire il credo di Sarmat, eretto intorno ad una visione avveniristica del metal. Non a caso tra i collaboratori abbiamo Steve Blanco degli Imperial Triumphant, qui ai synth. Il brano che dà il titolo al disco è da interpretare come un segno non per nulla casuale.
L’upgrade di Sarmat è evidente, e ci porta laddove non ci sono più limiti alla creatività. In quel contesto quasi fuion, che un tempo era appannaggio di pochi, pochissimi elementi di nicchia e che, invece, negli ultimi anni, sta ampliando il suo bacino di utenza. Sperimentazione, ricerca, e una buona dose di narcisismo sonoro sono alla base di “Upgrade”, episodio che mette ancora una volta in chiaro che i Sarmat sono in grado di prendere qualunque direzione possibile e immaginabile. Ottima la scelta di non eccedere in durata, in modo da mantenere alta la concentrazione durante l’ascolto, e non perdere il focus, rischio altissimo con un disco così altamente ricco di soluzioni.
Splitterzelle – Splitterzelle
Quello di Splitterzelle è un nome relativamente giovane in ambito sonoro. Il duo composto da Pedro Pestana e Sidney Jaffe arriva infatti al secondo album in meno di un anno e mezzo. E lo fa mostrando subito un deciso cambio di passo. Se “Drumhard Sessions Vol. 1” guardava in modo più deciso verso lo space rock, con questo omonimo secondo episodio, la band vira in direzione di un’elettronica molto più intrigante che lascia meno punti di riferimento.
Ogni istante del disco sembra voler fare storia a sé, ma senza comunque perdere il senso di insieme che resta saldamente nelle loro mani. A tratti sembra di avere a che fare con due band diverse se si riascoltano i due album in sequenza.
Così come non si può non notare il netto passo avanti compiuto dal duo. Dell’esordio rimane quel senso di straniante disperazione che si ha nel momento in cui ci si confronta con l’immensità dello spazio circostante, e con tutte le paure derivanti dall’ignoto. “Splitterzelle” può sembrare un azzardo quasi fuori contesto, se guardiamo agli altri dischi che compongono questo ennesimo episodio della nostra rubrica, ma, come spesso accade, occorre fare un passo indietro per farne uno in avanti (mentalmente). Alla fine quello che varia sono soltanto i macchinari, ma non lo follia che sta dietro ai suoni.
Possiamo cambiare la strada ma il percorso alla fine porta alla medesima destinazione.
Toru – Velours Dévorant
I Toru sono un trio francese che si muove tra Lione, Nizza e Marsiglia. Dopo il debutto del 2020, e lo split dello scorso anno coi Brutalist, arrivano oggi, grazie alla collaborazione con la Cruel Nature, alla pubblicazione di un disco che abbiamo molto ascoltato e molto apprezzato nella prima parte dell’anno.
Il loro è un sound minimalista decisamente scomodo, ai limiti del fastidio, che sposa un’idea che si avvicina alla sperimentazione più pura. Per certi versi ispirati dalla musica improvvisata, i Toru aggrediscono immediatamente i nostri padiglioni auricolari e non li mollano per quasi 45 minuti di follia. Dissonante all’eccesso “Velours Dévorant” è l’esempio di come si possa dare sfogo alla creatività, anzi di come sia possibile, e per certi versi quasi doveroso, andare in una direzione che se ne frega di quello che chiede il mercato.
Il loro è un approccio noise portato all’ennesima potenza, non tanto a livello sonoro, di impatto, ma quanto a ricercatezza, a scelta di suoni, e soluzioni che possano mostrare le immense potenzialità della mente umana.
Perché una cosa deve essere chiara. La tecnologia oggi permette qualunque artificio possibile, ma senza la creatività, l’ingegno e la follia della mente le macchine non possono nulla da sole. Per alcuni Toru rappresenta un qualcosa da cui fuggire all’istante, non abbiamo dubbi in merito, come non ne abbiamo sul fatto che si tratta di una delle realtà più interessanti della scena europea oggi.










