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Recensione : Zoids – Zzap

Pensavo: come definire gli Zoids? Si potrebbe dire che sono un gruppo Garage Punk piuttosto minimale, in linea col periodo storico che ci troviamo a vivere ma vi metterei sulla pista sbagliata.

Zoids – Zzap

 

 

Si potrebbe dire che sono un gruppo Garage Punk piuttosto minimale, in linea col periodo storico che ci troviamo a vivere ma vi metterei sulla pista sbagliata.

Si potrebbe dire che facciano avanguardia, usando il Garage Punk come scusa per fughe verso le più efferate sperimentazioni; vi metterei, ancora una volta, sulla pista sbagliata e, forse, contribuirei solo a mandarvi ancora di più in confusione.

Meglio sarebbe semplicemente affermare che gli Zoids fanno gli Zoids, niente di più e niente di meno, e, negli Zoids, c’è un mondo che si apre e nel quale è impossibile ritrovare la via del ritorno.

Non so cosa ci sia che mi appassiona tanto, in questo Lo-Fi in presa diretta, registrato con un Tascam e buttato su cassetta. Davvero non saprei: questo Garage trasfigurato, questo approccio che unisce Stooges, Velvet Underground, Sonic Youth, Robert Johnson e Hasil Adkins e li getta in una situazione di vita simulata, come in Ubik di Philip K Dick; questa fantascienza generata con mezzi da poco, come in Solaris di Tarkovskij…qui tutto è immaginario, sospeso, vita-nonvita, delirio e stato di alterazione.

Non volendo, mi sono già risposto nella breve descrizione di cui sopra: suono, battito cardiaco accelerato, enfasi, cinismo, cinema sci-fi girato in una sola stanza. Questi i motivi per cui mi piacciono così tanto.

Digital Beast apre il sipario con un riff protopunk, una batteria marziale e commenti rumoristici che sembrano quasi parodiare I Wanna Be Your Dog degli Stooges:

ma la canzone va da un’altra parte, si autodistrugge in feedback alienanti e ci si ritrova su di un altro pianeta in Thunderdome: prima citazione da Mad Max, dove un giro di chitarra rincorre una voce annoiata e lo fa all’infinito. Il pezzo gira su se stesso all’infinito, la percezione del tempo si annulla e si rimane delusi al momento della sua interruzione: istantanea e definitiva, come ghigliottina su testa di condannato. 

Quando arriva il Chaos-Baccanale di Chernobyl (suggestioni anni ’80 che ridisegnano il decennio per quello che è stato veramente) sembra quasi una liberazione: una danza scoordinata e senza senso, come in una scena del Satyricon di Fellini, una descrizione in un minuto e pochi secondi del declino di una civiltà. Difficile rendere meglio l’idea.

Il lato B comincia in un frastuono distante, si avvicina come una coltellata e, per una coltellata, si rivela di fatto: ancora rock n’ roll asservito al culto delle macerie, della decadenza. Rumorismi di fondo accentuano la natura lancinante dell’insieme, lancinante ed irriverente: S.L.U.T. è crudele, un pezzo che celia e decade.

Interceptor (e vai di seconda citazione da Mad Max) è un country suonato per grattugie, tagliole, coltelli arrugginiti: nel suo ossessivo ripetersi, inquinata da suoni alti e altri rischia di ferire chi ascolta. Contagiosa e letale, ultima variante di una pandemia di largo successo.

Tutto, purtroppo, si conclude con Ghost Modular Frequency: un apparecchio per la traduzione in verbo di presenze fantasma nell’ambiente lasciato acceso tutta la notte, per riuscire ad avere ancora paura, ultimo sentimento rimasto in vita dopo l’eccidio operato negli ultimi due anni.

Quindi, come definire gli Zoids al termine di tutta questa dissertazione, punto per punto, canzone per canzone? Forse, ancora, semplicemente Zoids: entità che di per sé, tuttavia, non ha nulla di semplice se non l’approccio minimale, ricordandosi sempre, però, che suonare il minimo necessario è una cosa tutt’altro che facile:

occorrono senso della misura, una giusta estetica, pratica e pratica per eliminare tutto il superfluo possibile e, infine, giungere a dischi gioiello come questo Zzap, ennesima riprova della bontà del gruppo e dell’estrema fascinazione che esercita su chi ascolta (io per primo).

 

Zoids – Zzap Goodbye Boozy Records/Squirt Shit Records

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