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ZETA 03

ZETA 03 - Terza Puntata del Racconto

ZETA 03

PRIMA PUNTATA  – ZETA 01

SECONDA PUNTATA – ZETA 02

 

TERZO

– Ti ho lasciato la colazione sul tavolo.

Al suono della sua voce Jim aprì gli occhi, tentò faticosamente di sbrigliare la mano dalle lenzuola per lanciarla fuori dal letto in cerca di raggiungere quella ragazza che ogni mattina lo lasciava. Non riuscì a raggiungerla, la vide ancora una volta uscire dalla porta, gli occhi sembravano tremare, li chiuse e, dopo pochi istanti, si ritrovò in cucina seduto sulla sedia accanto alla finestra. Caffé pronto, sigaretta accesa, telefono svanito nel nulla. Nella via sotto casa non un’anima viva, il sole era alto, il cielo terso e pensieri assenti. Si vestì velocemente, ormai quelle quattro mura sembravano casa sua. Vista familiare di oggetti mai incontrati prima.

La strada deserta pareva il corpo di un serpente gigante senza fine, ogni passo sembrava dovesse essere calibrato al millimetro per non scivolare, non cadere, non perdere quel poco di speranza di non incorrere ancora in quel ristorante malvagio e tetro.

Decise di cambiare strada, mentre il serpente si muoveva sotto i suoi passi rendendo il percorso labirintico.

Jim guardava in basso per restare eretto.

Come se una forza magnetica lo potesse muovere a sua discrezione si ritrovò ancora una volta davanti a quella vetrata.

– Vuoi entrare?

– Anche oggi no

– Oggi? Anche? E’ la prima volta che ti vedo, sono fisionomista mi ricorderei dei tuoi capelli.

– Evidentemente questa volta i suoi ricordi sono spenti

– No mio caro, non è possibile

– Lascia stare la gente e vieni dentro che c’è da fare, al due hanno già ordinato?

– Ecco, lui sicuramente si ricorderà di me, di quell’intruglio azzurro e tutto il resto

– Capo, questo ragazzo dice di essere stato qui

– Fammi vedere, no mai visto

– Impossibile, sono stato qui ieri e il giorno prima

– Allora se sei tornato, ti è piaciuto

– Tutt’altro

– Metti in discussione il nostro lavoro…

– Jim…

Dall’interno una voce lo stava chiamando.

– Dai entra e vieni a mangiare con noi, sarà una settimana che non ti fai vedere

Al tavolo erano seduti i suoi amici più stretti. Incredibile trovarli li. Eppure c’erano tutti.

– Cosa fate qui?

– Solitamente mangiamo

– Ma con voi non sono mai stato qui

– Quindi non puoi?

– Si, si certo che posso

Si unì alla compagnia. Aveva lo sguardo incredulo e perso nel vuoto.

Riusciva a malapena a elaborare minimi pensieri, provando tuttavia una sottesa felicità nel rivederli tutti insieme.

Passò quasi un’ora dal suo arrivo, il cameriere non si era ancora presentato al tavolo mentre gli altri clienti andavano e venivano nonostante la strada fosse deserta.

Guardava, osservava, ispezionava i suoi amici ma ad ogni sguardo sembravano diversi. Un attimo prima biondi e mori, l’attimo dopo calvi e barbuti.

– Voi non sentite questo odore?

– Quale odore?

Mik si girò verso Jim, aveva gli occhi di vetro, bianchi e fissi verso la parete alle spalle di Jim.

La paura pervase il corpo del ragazzo ma stette immobile.

Luke si alzò e proclamò l’uscita.

Il cameriere, che nel frattempo era rimasto a guardare il tavolo dei ragazzi, si avvicinò e tirò fuori sette bicchieri con il liquido blu.

– Ancora?

– Cosa Jim?

– Ancora quel coso da bere

– Ma è la prima volta

– No per niente

– Dai beviamo e usciamo

Per quanto in quel locale non si ricordassero di lui, Jim optò per seguire ancora una volta quel consiglio e bevve il Blimcs senza fiatare. Senza accorgersene si ritrovarono nel mezzo di una festa indefinita.

Jack tirò fuori una confezione con alcune pastiglie. Le distribuì a tutti e Jim cercò di resistere a quella mano che portava alle labbra la capsula colorata. Allontanava la testa, la sua faccia esprimeva espressioni di terrore. Cercava in ogni modo di allontanarsi creando una danza della mano tentatrice e il viso impaurito. Quando per un istante, un solo, unico, piccolo, insignificante momento, la luce si accese in un lampo, vide che quella mano era la sua.

Per tutta la notte non pensò a nulla, l’effetto delle droghe era terribilmente utile ad annullare ogni minimo pensiero o preoccupazione. Gli altri erano persi nei meandri della musica assordante, carichi di alcool, narcotici e mix sintetici.

Li guardava ballare e divertirsi con le ragazze e con chiunque fosse nei paraggi.

Si abbracciavano e sembravano essere in armonia con l’universo attorno.

Il corpo e la mente di Jim non erano chimicamente differenti da quelli degli altri e gli effetti erano i

medesimi. Anche lui si abbracciava, sorrideva e si sentiva in armonia con il tutto quando, repentinamente, l’alcol prese il sopravvento sugli altri stupefacenti, si dovette sedere per recuperare se stesso dalla balia dei fumi.

Chiuse gli occhi e quando li riaprì, non poteva credere a ciò che stava guardando, nonostante tutto

sembrasse così reale. Vide un enorme cavatappi. Enorme, abnorme, estremo. Roteava su se stesso, le spirali del verme sembravano salire all’infinito verso il soffitto mentre si conficcava, inesorabilmente lento, dentro il cervello nudo di Lou che lo guardava con gli occhi assenti, stanchi e bianchi.

Il manico era una gigantesca capsula blu e viola che girava assieme alle spirali, assieme alla voragine che stava aprendo dentro a un cervello ormai spento, assuefatto, crollato sotto la potenza dei narcotici, dell’alcol prepotente nelle vene, della musica di plastica, delle persone attorno, perse ognuna nel proprio personale labirinto.

La festa proseguiva tra cocktails, lisergia, anfetamina, musica da cervelli rimbombanti, esagerazioni e esasperazioni di ogni sorta.

Jim non vedeva chiaro cosa stesse accadendo in quel luogo. Tutto era sfumato, dai pensieri ai sensi, alle immagini iniettate a goccia stile flebo negli occhi.

Millilitro dopo millilitro Darth continuava a portare bevande di ogni tipo.

– Bevi Jim

– Cos’è?

Vagava Jim, sentiva sulla pelle mille punture di api affamate, i nervi stavano reagendo alle sostanze, al punto da trasformare il pavimento in un mare solido, liscio e marmoreo.

Davanti gli si palesò Sam, aveva le sembianze di un enorme elefante con le zampe lunghe e affusolate.

Non era chiaro dove stesse andando, ma di sicuro non era importante saperlo. Gli parlò di un giardino lì fuori dove un albero continuava a gettare melograni a terra.

– Ne ho raccolto uno, guarda

Era morsicato. Sam preso dalla follia lo aveva addentato con voracità.

– Vedi ci sono i semi rossi

– Si vedo

Per guardarlo dovette chiudere un occhio, mettere a fuoco in quel momento risultava tutt’altro che

semplice.

– Lo vuoi?

– Cosa dovrei farne?

– Quello che ti pare

Iniziò a fissarlo fino ad arrivare al punto di sembrargli di entrare dentro al suo gusto rosso vivo.

L’aria era liquefatta, l’unico modo di sopravvivere era nuotare in un liquido etereo.

Guardò le sue mani, non le poté riconoscere, erano ormai due pinne di un enorme carassio dorato.

Si meravigliò tanto della sua mutazione da non riuscire a trattenere le urla, così forti da demolire ciò che era attorno e dalle fauci di squalo fuoriuscì una tigre gigante, feroce e furibonda come il sentimento di smarrimento nel non comprendere cosa stesse accadendo al proprio corpo.

Il suo ruggito era fragoroso, un’esplosione, un boato colossale.

La vista tornò lucida. Guardava ogni cosa dall’alto e laggiù, sdraiata su una roccia, a ridosso del melograno una musa, una Dea, una visione, lo splendore fatto a persona. Nuda, senza veli.

Il corpo del nuovo essere risorto dal liquido curativo si diresse verso quel corpo che lo stava invitando come fosse una panspermia greca dalla quale la vita torna ad essere fulgida e luccicante come le stelle dell’universo attorno a quella notte tersa.

Cibo dionisiaco offerto in dono agli dei del piacere della carne, del sangue, del sesso, dei voleri liquidi e della passione.

Si unirono i due, si unirono in un momento di estasi cerebrale e corporale, come una danza a tempo

ternario che improvvisamente iniziò a suonare solo per loro in quel giardino.

L’idillio fu intenso fino a quando un dolore di spina nel fianco, di siringa arrugginita non lo svegliò dal momento di gloria e piacere.

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