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Recensione : Tre dischi di Settembre che fan le labbra liberali ebbre di lebbra

È un periodo storto. Più si va avanti e questo si storce, si incrina. Purtroppo però non arriva mai al punto di rottura; sarebbe bello veder andare tutto a ramenghi a questo punto; il tanto osannato ritorno...

AA.VV “Are They Hostile?”-Damaged Goods, 2022

È un periodo storto. Più si va avanti e questo si storce, si incrina. Purtroppo però non arriva mai al punto di rottura;

sarebbe bello veder andare tutto a ramenghi a questo punto; il tanto osannato ritorno alla normalità che mostra infine il suo vero volto ipocrita:

sfruttamento travestito da occupazione, pace travestita da guerra, farsa travestita da politica.

L’unico punto di fuga richiede un sottrarsi dal presente e proiettarsi in una versione alternativa di sé, magari immaginandosi in un passato che non si è potuto vivere per questioni anagrafiche ma che si è sempre ammirato per i cimeli sonori che ci ha lasciato.

Quando, oramai stomacati da un presente che non ci somiglia, si arriva a pensare che forse “ieri” è sicuramente un giorno migliore, tanto “domani” sembra ineludibilmente una minaccia che grava sulle nostre teste.

Mi capita questa raccolta della Damaged Goods fra le mani e dentro l’apparato uditivo;

una scossa d’adrenalina pura in un corpo forse un po’ provato, sia dal punto fisico che psicologico, e ormai rassegnato ad una realtà che pare immutabile nel suo inesorabile declino intellettuale.

Siamo a cavallo tra i ’70 e gli ’80, Inghilterra, la Tatcher al governo, una crisi economica che cerca di risalire la china privatizzando gli utili e facendo pesare sul debito pubblico le perdite; siamo all’inizio di quel disastroso approccio economico-politico in cui attualmente stiamo vivendo.

Il Punk Rock, appena nato, dopo una prima scossa, quella del 1977, sta prendendo varie direzioni, da essere un semplice “genere” vuol diventare un lessico comune dal quale tutti possano attingere.

Ecco che quindi non ci si deve stupire di fronte alle divagazioni psichedeliche dei Bad Actors, ai primi accenni di Indie Rock estrapolati dal Mod dei Marines o al Garage sghangherato che anticipa gli Outta Place di qualche anno dei Johnny Moped: qui siamo di fronte a veri e propri scultori di ben tre decenni a venire; forme primigenie che altri penseranno a portare a compimento, ma, proprio per questo, emozionanti e vitali in quanto sempre racchiuse in un involucro fatto di tradizione, da una parte, e volontà di rompere le barriere tra i generi dall’altra. Un documento storico che aiuta e riunire i pezzi di un puzzle storico quindi, e che bisogna affrontare con spirito d’indagine.

Pezzi che, al di là dell’immediatezza che li contraddistingue, vanno indagati e sviscerati per avere un quadro della situazione musicale inglese del periodo: a due passi dalle Falkland, a due minuti di orologio dagli scioperi dei minatori…il punk rock fiuta la brutta situazione e reagisce con creatività; sono brani, questi, facilmente riconducibili a quello spirito che poi chiameremo KBD ma che, in realtà, ci dicono molto di più: come già detto, i Bad Actors si lasciano contaminare con pasticche di LSD, Slime, Marines recuperano la British Invasion suonandolo con chitarre secche e ruvide, i Johnny Moped recuperano un discorso lasciato in sospeso con i Fuzz ruggenti di un decennio a loro precedente, i Fanatics aprono un tunnel verso il Post Punk, rapinando un po’ gli Who e un po’ i Devo, Case, Straps e Daleks parlano già la lingua dei Docks, intrisa di poesia e spirito da operaio internazionalista (un po’, chiaramente, Sham 69 ma anche primi Slade), gli Heroes sono degli ex Mod che, con la scusa del punk dei Clash, riprendono lo ska con prepotenza e capacità di impatto… La Tatcher fa dei danni, l’underground reagisce con arte ed invenzione.

Per quanto la politica della Thatcher faccia ancora danni (e ci si attardi un po’troppo a proclamarne il fallimento storico…) , la musica di questi gruppi continua ad essere vitale e portatrice di ispirazione, come a dire: i governanti passano in un attimo, la musica rimane in eterno…

 


S.U.G.A.R. “II” 2022, Alien Snatch

 


Con un bel salto di 40 anni mi ritrovo di nuovo qui, a contare i danni del neoliberismo:

la predominanza del pensiero neoliberale (posto che questo abbia dignità sufficiente per poter essere definito “pensiero”) ha distrutto ogni volontà indirizzata verso la creatività e ridotto ogni cosa a mero prodotto di consumo: se non produci (produrre non è creare, questo sia chiaro), non fai soldi, se non fai soldi, non vivi.

La mortificazione di ogni spinta intellettuale fa declinare l’esistente al concetto piuttosto aleatorio di normalità; e la normalità pialla, uniforma, rimuove ogni possibile peculiarità ed unicità.

Le realtà particolari vengono, poco a poco cancellate, al fine di ridurre ogni città, paese, villaggio, alla cartolina di se stesso.

Fa male, e non poco, vedere che gli S.U.G.A.R. da Berlino, una tra le città più vive e uniche, proprio perché colma di differenze, personaggi veri e realtà sue particolari, si ritrovano a denunciare le stesse impressioni in “Pankstrasse”

“Whatever Happened to the City?”

si chiedono, appunto, gli S.U.G.A.R. di fronte alla realtà indegnamente sempre più piatta di una città come Berlino; la città che li ha svezzati a birra economiche, commistione culturale e che li ha resi avvezzi, tra centinaia e centinaia di negozi di dischi usati sparsi per la città, al Punk ‘n’Roll di Saints, Pagans e Crime, un genere al quale son stati capaci di aggiungere, e questo secondo album ne è la riconferma, le loro caratteristiche personali:

quei toni malinconici che insaporiscono pezzi come Heartbreaker, Nobody e 1984, quella psichedelia disperata, ma comunque ben contenuta dentro ad un Rock n’Roll ruvido ed essenziale, che si può cogliere distintamente in Strange Thoughts.


Il gruppo di Berlino non è comunque nostalgico e mescola sapientemente l’immediatezza dei gruppi di cui sopra con una maturità compositiva complessa; non sono pezzi banali o senza fronzoli; anche quando si fanno meno malinconici e più spietati, come nei quattro pezzi che chiudono il disco, si può avvertire tutta la bontà di una penna felice, creativa e che non si rilassa mai su costruzioni da “buona alla prima”:

gli S.U.G.A.R. rispondono con creatività all’appiattimento, alla città ridotta a cartolina e contrappongono alla pialla neo liberal schegge di ferro rugginoso e deleterio. Come nella compilation della Damaged Goods, la risposta alla mediocrità è la creatività: inventare forti della consapevolezza di un passato ricco ed esemplare dal quale attingere, impiantare una solida base ed iniziare a costruire un’opera unica.


Si potrebbe dire, a fronte di quattro decenni di ottimi dischi, che in realtà la creatività non funzioni come antidoto: dai tempi di Reagan e Tatcher pare proprio che si sia andati sempre più di male in peggio, ma, in realtà, se si considera che movimenti ed esperienze, come la Spagna del 1936 e l’Ucraina del 1917, atti a contestare i poteri vigenti con un risultato positivo (perché, se non fosse per la violenza che il potere applica ogni volta che non riesce ad ottenere il consenso popolare, questi due momenti storici avrebbero avuto ben altro esito), siano maturati, nella migliore delle ipotesi, in circa cinquant’anni di lavoro, dedizione e costanza.

Dobbiamo ancora lavorare sodo se vogliamo davvero imprimere una svolta e liberarci. Nel mentre riflettiamo, tuttavia, concediamoci l’ascolto di un disco fenomenale come questo (pare aiuti a riflettere meglio).

 


DADAR “IRON CAGE”, 2022-GOODBYE BOOZY RECORDS

Unica via di uscita alla realtà imposta, neo liberale con variante sovranista, è dunque la festa; non il gesto vuoto di chi, devoto, si butta in ginocchio di fronte al capitale, indotto a pensare, fino a credere, che festeggiare è pratica solo commerciale, di pagare- consumare-pagarepergodere-goderepercrepare.

La festa non è cosa da commercialista, da militare in licenza, da bacino di utenza, ma una festa, se onesta verso se stessa, è come una frusta che s’abbatte sulla massa, tutta, imponendole un ritmo di danza che è rito, non consumo, che è odore, non profumo, che è sangue, non vino, che è carne, non vestito.

Come questo disco che adesso gira sul mio piatto: urla, burla, danza, mattanza, serio poi faceto, sacrificio, istinto, vero e proprio rito in tributo al primo essere umano.

È divertirsi senza freno, toccare con mano una vita incandescente che passa e spazza via tutto come fosse un treno.

Un sentire pagano che paga tributo al dio Pan che, in quanto indicato come portatore di peccato da cattolico pensiero, è Punk in senso compiuto.

La ritmica meccanica, senza fronzolo o lacchezzo, dona un senso come di post-moderno e convive in perfetta costanza con la parte solista (e, più che da base, gli fa da basista) , di voce e chitarra, che si fa mesta, si fa bestia, all’occorrenza traduce la tristezza in violenza e dipinge, con mano attenta, paesaggi di provincia: Parma, città di provenienza dell’artista (ma i Dadar son da considerarsi progetto solista o una vera e propria banda?), quintessenza della Resistenza prima ancora che si facesse la Resistenza: 1922, gli arditi del popolo di Secondari e Malatesta respinsero con forza, salvando per un attimo Parma, la marmaglia fascista di Balbo e Farinacci, facendo delle camice nere sanguinosi stracci.

Tutto questo in questo disco risuona ancora a perenne memoria, traghettandoci sulla strada maestra della storia e donandoci la perfetta colonna sonora per una svolta difficile ma necessaria ed obbligatoria: l’evoluzione libertaria.


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