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Recensione : Che Ci Faccio Qui? Di Bruce Chatwin

“Che ci faccio qui?” è il libro in cui Chatwin raccolse, negli ultimi mesi primi della morte (1989), quei pezzi dispersi della sua opera che avevano segnato altrettante tappe di una sola avventura, di tutta una vita intesa come “un viaggio da fare a piedi”.

#Rileggiamo: Che ci faccio qui? di Bruce Chatwin

Che Ci Faccio Qui? Di Bruce Chatwin

“Che ci faccio qui?” è il libro in cui Chatwin raccolse, negli ultimi mesi primi della morte (1989), quei pezzi dispersi della sua opera che avevano segnato altrettante tappe di una sola avventura, di tutta una vita intesa come “un viaggio da fare a piedi”.

 

Potrete leggere passaggi come questi:

Come tutti gli scansafatiche, anch’io volevo scrivere (…).

Le descrizioni dell’atto sessuale sono noiose come le descrizioni di un paesaggio visto dall’aria – e altrettanto piatte: mentre la descrizione che Flaubert fa della stanza di Emma Bovary in un hotel de passe di Rouen, prima e dopo, ma non durante l’atto sessuale, è senz’altro il brano più erotico di tutta la letteratura moderna.

La Bibbia non m’interessa. Tanto, è indecifrabile. Se non ci fosse, il mondo sarebbe molto migliore. Se potessimo abolire la superstizione!

Mel’nikov (…) ha scritto, a suo tempo, che per lui la mancanza di denaro si tradusse in una “immensa ricchezza dell’immaginazione”.

(…) l’eroe negativo è una vittima. Se oggi Guevara fosse presidente della Bolivia, sarebbe stato un fiasco. Un eroe del suo tipo ha bisogno di essere crocifisso.

Herzog e io abbiamo in comune la convinzione che camminare non è semplicemente terapeutico per l’individuo ma è un’attività poetica che può guarire il mondo dei suoi mali.

Werner (Herzog), a quel che mi dicono, era il beniamino della Eisner. E nel 1974, quando seppe che lei era in fin di vita, si mise in marcia, in mezzo al ghiaccio e alla neve, da Monaco a Parigi, convinto che in qualche modo, a forza di camminare, sarebbe riuscito a farla guarire. Quando arrivò a destinazione, Lotte Eisner si era ristabilita; e tirò avanti per altri dieci anni.

La rivoluzione russa è il più notevole evento intellettuale del secolo, e i suoi pittori, scultori e architetti si dimostrarono all’altezza dell’occasione. Durante la prima guerra mondiale il centro di gravità artistico si spostò da Parigi a Mosca e Leningrado, dove rimase per pochi anni turbolenti.

Una volta Anatolij Lunacarskij, il primo commissario all’Istruzione nominato da Lenin, aveva fatto piangere i suoi ascoltatori rievocando le meraviglie del passato custodite nel Museo di Napoli. Nel novembre del 1917 arrivò a piangere lui stesso alla notizia che il Cremlino e San Basilio erano stati distrutti, e rassegnò le dimissioni dal comitato rivoluzionario. “Non posso sopportarlo. Non posso sopportare questo mostruoso scempio della bellezza e della tradizione”. Si reintegrò da sé nella carica due giorni dopo, quando seppe che la notizia era falsa.

Se un artista vuole infondere coraggio nei lavoratori di un impianto siderurgico o in quelli che raccolgono il grano nei campi, può farlo soltanto in un modo: dipingendo con realismo la loro lotta eroica. E c’è solamente un modo per battere la macchina fotografica in questo gioco: dare alle figure un aspetto più eroico di quello che hanno nella realtà. Questo era il fondamento logico del realismo socialista che subentrò alle astrazioni dell’avanguardia.

Nel 1901 Cechov scelse per la sua luna di miele una crociera sul Volga. Aveva sposato Ol’ga Knipper, l’attrice per la quale avrebbe scritto “Il giardino dei ciliegi”. Ma soffriva già di tubercolosi, e i medici gli avevano prescritto una “cura di kumys”. Il kumys, latte di giumenta fermentato, è l’alimento principe di tutti i nomadi della steppa e il rimedio sovrano contro ogni genere di malattie. I “nobili mungitori di giumente” appaiono in letteratura già nell’Iliade ed era bello immaginare Cechov – sul suo battello a ruote – intento a prendere appunti per un nuovo racconto e a sorseggiare una bevanda nota a Omero.

“Gli uomini di genio” scrisse Tolstoj “sono incapaci di studiare, da giovani, perché sentono inconsciamente di dover imparare ogni cosa in maniera diversa dalla massa”.

Verso le dieci andammo a ormeggiare non lontano da Kujbysev, affiancandoci a una chiatta per il rifornimento del carburante. (…) A poppa c’erano dei pannolini stesi ad asciugare sulla stessa corda con una mezza dozzina di carpe.

La crociera sulla Maksim Gor’kij era una routine di romanzi russi, pesca, scacchi e biliardo, interrotta da qualche visita a terra per avere la conferma che eravamo nel 1982, non nel 1882.

Prima dell’èra dei bombardamenti aerei la potenza di ogni impero dipendeva dal numero dei suoi destrieri.

Per un nomade (…) le frontiere politiche sono una forma di follia.

Gli Unni, a quanto sembra, compravano, vendevano, dormivano, mangiavano, bevevano, emettevano sentenze e addirittura defecavano senza scendere da cavallo.

Chi ha lo stomaco vuoto fa presto a perdere le staffe.

La vita quotidiana dell’immigrato è molto triste. Niente donne. Letti scomodi. Cibo cattivo. Se mangia non risparmia, e se risparmia non mangia. E a lui vengono sempre riservati i mestieri peggiori: lavori pesanti nelle fonderie, nelle riparazioni stradali, nei cantieri edili, nell’eliminazione dei rifiuti o delle acque luride.

(…) la vera casa dell’Uomo non è una casa, ma la Strada.

La storia della civiltà è la sostituzione graduale degli uomini con le cose.

(…) Tolstoj: “Fare visita a un grande scrittore non ha senso, perché egli s’incarna nelle proprie opere”.

 

#Rileggiamo: Che ci faccio qui? di Bruce Chatwin

Cos’altro aggiungere? Credo valga la pena ricordare quel che ha detto Salman Rushdie di Chatwin: “Era uno straordinario narratore, inesauribile come Sheherazade… sembrava avere divorato tutti i testi esoterici possibili ed era un vero e proprio zingaro, un imitatore straordinario – la sua versione della signora Gandhi era davvero perfetta – e un viaggiatore di primissima categoria”.

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