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Recensione : “Non piangete la mia morte” di Bartolomeo Vanzetti, edito da Barbès

In questo volume sono raccolti alcuni scritti di Bartolomeo Vanzetti, pescivendolo piemontese emigrato nel 1908 negli Stati Uniti all’età di vent’anni: “Una vita proletaria”, le lettere ai familiari e la requisitoria che egli fece ai giudici che di lì a poco lo avrebbero condannato a morte.

“Non piangete la mia morte” di Bartolomeo Vanzetti, edito da Barbès

In questo volume sono raccolti alcuni scritti di Bartolomeo Vanzetti, pescivendolo piemontese emigrato nel 1908 negli Stati Uniti all’età di vent’anni: “Una vita proletaria”, le lettere ai familiari e la requisitoria che egli fece ai giudici che di lì a poco lo avrebbero condannato a morte.

Sono testi che ci parlano di un uomo, dei suoi amori, dei suoi affetti, delle sue debolezze, ma anche della sua ferma idealità politica.

E ci parlano del valore assoluto dell’anarchia, che nelle sue parole si rivela nella sua essenza libertaria, umanitaria, solidale.

 

Potrete leggere passaggi come questi:

 

  • Non credere che l’America sia civile (…) se gli levi gli scudi e l’eleganza del vestire trovi dei semibarbari, dei fanatici e dei delinquenti. (…) Qua è bravo chi fa quattrini, non importa se ruba o avvelena. Tanti hanno fatto e fanno fortuna col vendere la dignità umana, facendo le spie sui lavori e gli aguzzini ai propri connazionali. Tanti riducono la moralità a un livello più basso di quello che la natura ha donato alle bestie. (12 gennaio 1911)
  • Che ragioni aveva l’Italia di andare in Africa, fra gente diversa, di diversa lingua, religione, costumi, e ostile a noi e alla nostra civiltà per giunta? Nessuna, se si scarta la vanità del re, aspirante alla corona imperiale, la fortuna del Banco di Roma che ha laggiù impiegate somme ingenti e sperava che sotto il governo italiano queste rendessero di più, nonché l’ardente desiderio di diversi decaduti e impoveriti, che speravano di rifar la fortuna calando quali luride civette a dissanguare in ogni modo possibile quel povero popolo vinto e sottomesso. Tutte le altre ragioni economiche, politiche, storiche e patriottiche lanciate al vento da coloro che tale guerra hanno iniziata, preparata da lungo tempo, senza che tu e il popolo d’Italia ne sapeste nulla, erano menzogne. E nessuno lo sapeva meglio di coloro che le bandirono, collo scopo di avere l’approvazione della povera gente che deve fare e pagare la guerra col sangue, col pianto, colla miseria, con la vita, senza nulla guadagnare, neppure se si vince. (15 dicembre 1914)
  • Si dice che l’Italia fa la guerra per liberare i fratelli triestini. Gli italiani residenti in quelle due province formano solo un quinto della loro popolazione; gli altri 4/5 di quella popolazione sono composti di gente di diverse lingue e religioni, ma concordi tutti nel preferire il governo austriaco a quello italiano. Quindi se ha ragione l’Italia di fare la guerra per liberare 1/5 di quella popolazione, ha più ragione l’Austria per tenere liberi da un governo non voluto i 4/5. I giornali italiani, pagati dall’italico governo, mentono per la gola, e la verità la sappiamo meglio noi, per mezzo di lettere provenienti dall’Italia e dall’estero, che non voi che siete in patria e leggete tutti i giorni una pagina di giornale, zeppa di menzogne, cioè di “notizie”. (15 dicembre 1914)
  • Ecco il bel progresso dei lavoratori! Cinque o sei anni fa, quando la fabbrica di corda ove Brini lavora pagava solo nove scudi la settimana, bastava il lavoro di lui solo per tirare avanti; ora che ne prende diciotto la settimana non sono più sufficienti e alla fabbrica ci deve andare anche la moglie. E alla fine del mese il bilancio è pari. Il rimasuglio basta appena a far fronte agli incerti e alle disgrazie, proprie di ogni famiglia. (1 settembre 1919)
  • Io desideravo con tutte le mie facoltà che la ricchezza sociale dovesse appartenere a ogni creatura umana, così come essa era il frutto del lavoro di tutti. (22 luglio 1921)
  • L’America (…) è detta la terra della libertà, ma in nessun altro lembo della terra, l’uomo trema e diffida dell’uomo, come in essa. Qui si parla della libertà, per ridere e farsi buon sangue. Qui i lavoratori americani si chiamano fratelli, nella sala dell’unione, e fuori si fanno la forca e la spia. (15 marzo 1923)
  • Tu hai ragione di rallegrarti per la solidarietà di tanti buoni; ma non dichiararla “finora inefficace”. Se non fosse per essi, se tutti avessero taciuto, in tre mesi i fascisti americani ci avrebbero conciati alla Matteotti. A quest’ora saremmo stramorti – invece siamo ancora vivi – e ben vivi. (…) persuaditi una buona volta per sempre di questa irrefutabile verità. La protesta e la rivolta sono sempre fecondi di bene; è la codardia, l’ignoranza, la sottomissione, che sono fatali. (15 luglio 1924)
  • Thayer, bigotto, limitatissimo, ferocemente reazionario, non ebbe scrupoli né ha rimorso di averci condannato a torto, perché la sua coscienza approva lo sterminio degli anarchici. Sapendo che le autorità superiori e i grandi interessi di questo Stato erano contro di noi a morte, egli ci assassinò nella speranza di essere nominato Giudice della Corte suprema dello Stato – il più gran sogno della sua vita. (5 dicembre 1926)
  • Sono gli uomini che hanno fatto le leggi, non le leggi gli uomini; e perciò chi ha il potere ha anche la legge e se ne serve per legalizzare e imporre la sua volontà e le sue azioni. (5 dicembre 1926)
  • Ti dico che ogni altra nazione del mondo ha fatto per noi molto di più e di meglio del governo fascista. Io penso inoltre che la stampa fascista propaga infondate notizie ottimiste sul caso, per giustificare l’inerzia del governo italiano e per calmare gli animi allo scopo di evitare l’agitazione in nostro favore in Italia. Ecco tutto. Però questa infamia passerà alla storia con tutti gli altri delitti. Te lo assicuro. (21 gennaio 1927)

 

Cos’altro dire? Il 23 agosto 1927, a Boston, alle ore 00.19, viene giustiziato sulla sedia elettrica Nicola Sacco. Alle 00.26 tocca a Bartolomeo Vanzetti.

Nonostante le prove evidenti della loro innocenza, vengono uccisi due anarchici arrestati sette anni prima, il 5 maggio 1920, con l’accusa di aver preso parte a una rapina uccidendo un cassiere e una guardia.

Rivolgendosi alla giuria che lo condanna alla pena di morte, parlando di sé e del suo amico Sacco, Vanzetti dice: “Mai vivendo l’intera esistenza avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini”. Aveva capito che cosa sarebbero diventati i loro nomi.

 

Marco Sommariva

marco.sommariva1@tin.it

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