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Recensione : I due Hotel Francfort di David Leavitt

Dopo sei anni di silenzio, nel 2013 Leavitt torna con “I due Hotel Francfort”, un romanzo ambientato nel giugno del 1940, sui modi in cui le persone possono cambiare in circostanze eccezionali e non essere più le stesse.

“I due Hotel Francfort” di David Leavitt, edito da Mondadori

I due Hotel Francfort di David Leavitt

Dopo sei anni di silenzio, nel 2013 Leavitt torna con “I due Hotel Francfort”, un romanzo ambientato nel giugno del 1940, sui modi in cui le persone possono cambiare in circostanze eccezionali e non essere più le stesse.

È la fotografia di un’Europa alla viglia del disastro, che fa fatica a tenere in vita gli ultimi equilibri mentre dai confini di molte nazioni risuonano colpi di mortaio; una storia immersa nell’atmosfera tanto precaria quanto seducente del neutrale porto di Lisbona, città affollata di espatriati preoccupati di quello che stanno per perdere, in attesa di essere portati in salvo a New York dalla nave SS Manhattan.

È il ritratto di quattro destini che devono fare i conti con il violento contrasto tra le convenzioni del loro mondo e i personali, scandalosi desideri di felicità: Julia e Pete Winters, americani molto per bene, che a Parigi avevano cercato una fuga dalla loro ordinaria vita matrimoniale e Edward e Iris Freleng, coppia di ricchi bohémien che hanno girato la costa francese sperando fino all’ultimo di non doverla lasciare.

 

Potrete leggere passaggi come questi:

 

  • (…) ci preoccupavamo troppo di quello che stavamo perdendo per curarci di quelli che stavano perdendo più di noi.
  • Fu allora che, per la prima e unica volta, dubitai della mia futura moglie. Dubitai di lei tanto da spaventarmi; voglio dire che il dubbio mi spaventava, non il pensiero che lo aveva scatenato: che lei potesse essere una bugiarda e un’imbrogliona. Perché non sono mai i dati di fatto a spaventarci, giusto? È sempre il dubbio… Così ignoriamo ogni segnale d’avvertimento, per quanto eclatante, piuttosto di permettere che qualcosa interferisca con la nostra determinazione a ottenere quel che vogliamo; il che fa di tutti noi dei bugiardi e degli imbroglioni.
  • Vorrei poter dire che Parigi era all’altezza delle aspettative di Julia. Invece, purtroppo, non lo era, e forse nessun posto lo è mai, per quelli che nutrono troppe aspettative. Quanto a me, non mi aspettavo niente, così ero felice di essere lì.
  • (…) avete saputo cos’è successo quando Hitler ha marciato su Parigi? Voleva prendere l’ascensore per salire in cima alla Torre Eiffel, ma gli operatori hanno tagliato i cavi elettrici.
  • A Parigi, la guerra all’inizio sembrava poco più di un ballo in maschera. In previsione di incursioni aeree, Julia si era comprata un poncho alerte-plaid di Charles Creed e una custodia haute couture per la maschera antigas, in tweed rosso con borchie dorate di Lanvin. Secondo “Vogue”, una custodia haute couture per la maschera antigas adesso era un accessorio di prima necessità di cui nessuna parigina sofisticata poteva essere priva. Le cose peggiorarono in primavera. Caddero delle bombe. Nondimeno, l’atteggiamento dei giornali rimase flemmatico. Poi, un pomeriggio, mentre tornavo dal lavoro, mi capitò di notare del fumo che si levava da dietro il ministero degli Esteri. Mi chiesi se fosse un’altra bomba. Invece risultò che i funzionari stavano gettando balle di documenti dalla finestra, in un falò. Quella sera, col favore delle tenebre, il governo fuggì dalla capitale – prima a Tours, poi a Bordeaux – e la sera successiva, sulla Buick piena fino all’orlo, io e Julia facemmo lo stesso. Nella custodia per la maschera antigas, che non aveva mai contenuto una maschera antigas, nascondemmo tutto ciò che non volevamo che i doganieri trovassero.
  • (…) a me ha sempre fatto più paura un cambiamento di carattere che un cambiamento di opinione.
  • (…) due bambini mi superarono di corsa. Potevano avere otto o nove anni. Si tiravano dietro uno strascico di biglietti della lotteria come le code di un aquilone. Non fu questo, però, ad attirare la mia attenzione. Quello che la attirò fu che ciascun ragazzino indossava una scarpa sola. Da quanto riuscivo a vedere, le scarpe appartenevano allo stesso paio. Un bambino portava la sinistra, l’altro la destra. (…) furono bloccati da due poliziotti. In quegli anni, la polizia di Lisbona indossava elmetti simili a quelli dei bobby di Londra, il che conferiva agli agenti un aspetto ingannevolmente benevolo. Seguì una discussione. All’inizio pensai fosse per i biglietti della lotteria. Poi vidi che i poliziotti indicavano i piedi dei bambini. Stavano gridando. (…) All’improvviso uno dei poliziotti si mise a ridere e nello stesso istante schiaffeggiò il bambino che portava la scarpa sinistra, colpendolo forte sul viso. Il bambino si mise a gridare. Il poliziotto lo schiaffeggiò di nuovo, ancora più forte. Il bambino cadde in ginocchio. L’altro bambino si mise a correre, ma il secondo poliziotto lo acchiappò per la collottola. Lo tenne sollevato in aria, come fa una cagna con il suo cucciolo. L’unica scarpa del bambino cadde a terra. Le sue gambe sembravano dei bastoncini (…). Accanto a me c’era una donna. Aveva più o meno la mia età, e un aspetto serio e sbrigativo. “Che cosa terribile” disse con un pesante accento del Midwest. “Deve sapere che Salazar ha dichiarato fuorilegge non indossare le scarpe (…). Ma questa gente è povera. È difficile che possa permettersi di comprare le scarpe per i figli, tantomeno per sé, così dividono un paio di scarpe tra due figli. Non è che i bambini ne sappiano molto. Sono andati in giro scalzi per tutta la vita.” “Cosa ne sarà di loro? Verranno arrestati?” “Chi lo sa? Comunque non sono i bambini che contano. È la gente che guarda. Tutto questo è per loro: un piccolo avvertimento di cosa li aspetta se provocano anche il minimo problema. Se lo ricordi la prossima volta che qualche imbecille si mette a blaterare su che cosa meravigliosa sia Salazar per il Portogallo. Bene, buona giornata.” Si allontanò con passo deciso. Il bambino che era stato schiaffeggiato non si era rialzato. L’altro penzolava come un cadavere da una forca.
  • L’insulto lo posso tollerare serenamente. La slealtà mi ferisce sul vivo.
  • Non credo si possa mai spiegare fino in fondo un suicidio.

 

 

 

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