“Curve Pericolose – Antagonisti, sovversivi, antifascisti: quando le gradinate degli stati minacciano il potere” di Matthias Moretti e Giuseppe Ranieri (Red Star Press / Hellnation Libri)
Calcio e politica vanno di pari passo. Ma non nel senso che potremmo pensare, come cioè dinamiche intorno a cui costruire i dialoghi con cui alienare i problemi delle nostre giornate lavorative in cui sacrifichiamo ogni nostra energia vitale in un contesto sociale di oppressione legalizzata. No. Non è questa la visione in cui collocare il testo di Moretti e Ranieri. “Curve Pericolose – Antagonisti, sovversivi, antifascisti: quando le gradinate degli stati minacciano il potere” guarda infatti altrove. A quei contesti in cui la politica, per come la conosciamo, fallisce. È lì che le dinamiche che legano i gruppi ultrà si spostano dalle curve alle strade, alle piazze. Occupazioni temporanee slegate dai fatti calcistici e sportivi. Ma legate a problematiche sociali.
Le testimonianze prese in considerazione sono tra loro sovrapponibili solo se guardiamo al lato sociopolitico. Quello che ci fa anche – purtroppo – pensare che a casa nostra un certo tipo di prese di posizione, e, conseguentemente di azione diretta, siano un qualcosa che non accadrà mai. Vuoi perché mancano le condizioni sociali necessarie per innescare le rivolte, o forse perché qui si tende a separare le ritualità domenicali da quelle della politica attiva sei giorni su sette.
Per il resto, quello raccontato è un insieme quanto mai eterogeneo, in cui spiccano alcune realtà come quella turca. A libro concluso, infatti, non puoi non diventare tifoso del Besiktas, sulla scia anche dell’interessantissimo documentario “Istanbul United”, che racconta il patto tra le tre grandi tifoserie della capitale (Besiktas, Fenerbache e Galatasaray) che nel 2013 ha sancito l’opposizione popolare al regime teocratico di Erdogan, con l’occupazione di Gezi Park e Piazza Taksim.
Nelle pagine del libro emerge una serie di testimonianze che raccontano come le lotte sociali e politiche siano figlie di battaglie in cui i gruppi ultrà guidano le rivolte e le insurrezioni, forti delle loro esperienze di scontro con le autorità negli stadi, diventando autentici eroi romantici in grado di attuare quei cambiamenti non più rimandabili. Qui da noi, invece, lo stadio è ancora un deterrente sociale usato per calmare gli animi (per la verità fin troppo sopiti) e per sviare dai veri problemi, mentre altrove è davvero lo specchio della società, e dei suoi problemi, un luogo dove si mettono in piazza le idee, dove nascono le rivolte, dove si prende posizione sugli accadimenti della vita, dove si può parlare realmente di socialità. Dove, in altre parole, si fa aggregazione.
“Curve Pericolose” ci porta in viaggio tra il Maghreb, la Turchia e la Grecia. Con fermate intermedie a Cipro, in Israele, Brasile, Spagna e Irlanda. Chiudendo con la Germania e il fenomeno St. Pauli. Realtà diversissime ma che parlano lo stesso linguaggio, accomunate dall’idea di un calcio che debba realmente resistere al tentativo di trasformazione verso uno sport “da salotto”, con spettatori passivi, privato di quel suo lato ruvido di contestazione, e di rifiuto verso qualsiasi tipo di omologazione, in difesa di quelle identità individuali che sposano storie e culture locali. Un testo militante ma che riesce a non risultare mai didascalico, o accademico.
Nella curva della mia città si diceva (e si dice ancora) “ultras, no politica”, in una visione e una presa di posizione che non ho mai sposato. Non credo alle curve apolitiche, le considero realtà utopistiche impossibili da realizzare. Certo, meglio una curva qualunquista che una dichiaratamente filofascista (cosa che accadde, per un certo periodo, e che mi portò al primo – temporaneo – distacco con l’ambiente di curva). Anche se non ho mai sopportato il qualunquismo di chi non prende posizione su dinamiche di portata globale, e che cerca di nascondersi dietro a scuse improbabili.
Quello delle curve (mondiali e non italiane, per restare dentro al testo in questione) è un mondo che ha saputo adattarsi ai grandi cambiamenti andati in scena, e lo ha fatto, come raccontano i due autori, in modo sempre attivo, in prima linea, schierandosi sempre e comunque dalla parte dei più deboli, o comunque in difesa dei principi sociali e delle tradizioni che hanno scelto di difendere. Un mondo che ha fatto politica, e lo ha fatto soprattutto laddove chi doveva occuparsene si è mostrato fallace, inadeguato o colluso con il potere. Dalle primavere arabe all’indipendentismo basco, alle rivolte di Gezi Park a Istanbul, passando attraverso dinamiche di resistenza, ribellione, e riappropriazione della propria storia, come le vicende cipriote di Nicosia sponda Omonia, quelle religiose dei Celtic di Glasgow, in un crescendo di scontri contro le istituzioni e la repressione militare ai danni dei più deboli, in cui le curve hanno recitato il ruolo di capi tribù con grande carisma.
Il mondo moderno vuole un calcio sempre meno legato a queste dinamiche, e va infatti in una direzione che guarda al prodotto e non alla tradizione, al legame sociale, con l’aumento dei prezzi che impone una selezione all’entrata, ai divieti sempre più cervellotici per i settori popolari, in modo da rendere impossibile il sostegno per come lo conosciamo noi e con cui siamo cresciuti, le fidelizzazioni obbligatorie e i divieti per le trasferte, in stadi sempre più distanti dalle città, trasformati in centri commerciali, privati cioè di quella componente emotiva che è alla base del tifo per la squadra della tua città, in favore di un calcio da televisione e quindi da salotto, cioè inattivo, innocuo, non pericoloso per l’ordine costituito.
Gli esempi citati nel testo sono perfettamente inseribili in un contesto di controcultura antagonista, cosa che, purtroppo non possiamo dire in modo sovrapponibile per le curve italiane, schierate quasi in toto, soprattutto quelle maggiori, che hanno più grande impatto mediatico (e che quindi finiscono per influenzare anche involontariamente quelle minori) a favore dei cambiamenti più recenti che stanno cancellando il lato romantico dell’andare allo stadio nei settori popolari, ultimi baluardi di un sentire sociale che fa dell’aggregazione e della libertà dai vincoli i suoi punti fondanti.