Firenze, culla del Rinascimento, un tempo, ora culla dello scoramento, del malcontento ma anche di tanto Post Hardcore tornito con ingegno, arte ed esperienza da mani artigiane.
Come gli orefici di Ponte Vecchio, i Cane Di Goya (nome stupendo, stupendo come l’opera e l’artista cui fa riferimento), torniscono e cesellano quattro opere di valore inestimabile: arrangiamento, studio ben fatto in chiave armonica, voce da crooner dell’inferno e tanto scoramento e malcontento come di cui sopra.
Post Hardcore scrivevo, ma post Hardcore certamente non di maniera: quattro canzoni, quattro quadri del Goya, quattro composizioni scritte per suggestioni, impressioni e fascinazioni; il Goya pagano, legato ad una tradizione sospesa tra gli dei del Panthéon e l’orrore popolare, intento a spiegare l’essere umano all’essere umano stesso per mezzo di miti e leggende e qui reso su disco utilizzando il Post Hardcore, le sue spigolosità, i suoi lenti e pesanti affondi in un abisso di disperazione.
“Saturno devorando a su hijo” vive di tre atmosfere distinte: una iniziale, morbosa, viziosa, suadente, e una centrale, che contiene in sé buona parte del minutaggio, più Sludge, devastante, crudele, implacabile nel suo incedere, e che si risolve in un finale breve ma violento, introducendo così, in maniera esemplare, “El sueño de la razón produces monstruos”, brano che inizia in un cadenzato della morte, chitarre dissonanti e voce urlata, per poi abbattersi dentro voragini sonore senza fondo e riaprirsi ad armonie più eteree, sempre però con uno spesso strato di inquietudine, in odore di Post Rock: in fondo il paganesimo ci insegna che il dolore come il piacere, la disperazione come la felicità, il tormento e la quiete son elementi inscindibili tra loro proprio perché esattamente contrari ognuna all’altra: quelle frizioni emotive che ci tengono in vita e fanno di noi umanità pensante, capace di slanci che da immaginari diventano reali; in questo i Cane di Goya son veri maestri, e cioè nel trasporre in musica i vari stadi dell’essere e farli convivere in composizioni eccezionali:
Neurosis, Mogway, Eye Hate God, Unsane…riferimenti che potrebbero stridere tra loro ma che il gruppo riesce, con abile pennello, a fare affiorare all’interno della medesima canzone.
Esempio lampante è “El Aquilarre”, brano di una compiutezza impressionante: tensione e melodia, urlato lancinante e e cantato pulito che qui sa molto di Alcest, chitarre post rock lanciate in inferni Sludge; raggiungere il picco empatico dell’ascoltatore attraverso il tragico, percorrendo il soave così come il violento.
“La lampara del Diablo” chiude in 11 minuti di perfetta esecuzione, sospesa tra tutto ciò che di etereo, di surreale e di tramite tra la nostra realtà e i nostri sogni: un crescendo che si finirà col non voler mai si interrompesse e invece, giustamente, lo fa e, ristringendo legami con lo.sludge, si riaffoga tra urla, bordate di chitarre sature, piene, letali, una batteria che si scompone, marcia che si slaccia e si ricompone fino a quando il pezzo arriva al suo finale, in un accenno di trionfo, trionfo che somiglia più a un tonfo: cappio che scatta appena la botola si apre, spezzando colli e buone intenzioni.
Non servono le buone intenzioni nel mondo dei Cane di Goya: serve sapere rinunciare a quella morale che pretende di dividere il bene dal male, ciò che è cattivo da ciò ch’è buono; che pretende fede dopo aver negato il desiderio e predicata e imposta la rinuncia, promettendo altri mondi dove non esiste più carne né piacere né volere né ebrezza…
Ci riportano, i Cane di Goya, ad un mondo dove non esiste morale, ma solo ferina poesia apocalittica. Un mondo dove non si ha nessuna scelta, ma solo l’obbligo di essere se stessi e, in questo cimento, svelarsi agli altri per quello che siamo realmente: mostri generati dal sonno della ragione.
Samuele Storai – Vocal
Lorenzo Guazzini – Guitar
Lorenzo Terreni – Guitar
Marco Nincheri – Guitar
Lorenzo Cigna – Bass
Enrico Anzalone – Drums
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