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Altre Persone, Di Claude Lalumière (future Fiction, 2018)

Altre Persone, Di Claude Lalumière (future Fiction, 2018): La grandezza di un racconto si può riassumere così: un’idea interessante, di solito più è semplice meglio è, espressa in...

Altre Persone, Di Claude Lalumière (future Fiction, 2018)

La grandezza di un racconto si può riassumere così: un’idea interessante, di solito più è semplice meglio è, espressa in uno stile chiaro e accattivante. Quando però usciamo dalla scuola e ci approcciamo ai grandi scrittori, scopriamo che non esiste nessuna regola preconfezionata.

Primo racconto.
L’idea non è per niente semplice. Come quasi in tutta la letteratura postmoderna, sono stati abbattuti tutti i confini. I primi sono quelli di genere. Poi quelli tra la letteratura e gli altri campi del sapere. Partiamo da quest’ultima affermazione. Raramente oggi le idee artistiche stanno dentro di essa. Oramai è quasi normale, anche nel postmoderno più leggero, quello pop, diciamo, che già l’idea di base sia estrapolata dalla matematica o dalla fisica quantistica. Niente a che vedere con quel mitico sense of wonder dell’epoca d’oro della fantascienza. Nel nostro caso l’idea viene all’autore da una serie di riflessioni di antropologia novecentesca. Senza tediare i non esperti possiamo riassumere così: e se le linee evolutive estinte, come il Cro-Magnon, avessero continuato il loro percorso parallelamente ai Neanderthal? Visto? Ve l’avevo detto che non sarebbe stato semplice. E pensate che il protagonista, un ragazzo di nome Maxime, nel giro di poche pagine trova anche il tempo di fare riflessioni complesse senza annoiare il lettore. Accennavamo poc’anzi alle commistioni tra generi. Vediamole dunque. Ad inizio racconto ci muoviamo in un contesto post apocalittico. La gestione delle informazioni è perfetta. Nulla ci viene detto del passato del protagonista, o di quello che è successo al nostro pianeta. Ci viene lasciato intuire qua e là qualcosa secondo la regola, questa si sacrosanta, less is more. Dire poco, far pensare tanto. E allora ne viene fuori un paesaggio rarefatto, misterioso, un’atmosfera lynchana direi, dove la suspense non riguarda gli eventi e le azioni, ma tutto il mondo che ci circonda, misterioso esso stesso.

Vengono in mente grandi nomi del mainstream come Paul Auster o Cormac McCarthy, con opere come La trilogia di New York e La strada.

E in effetti qui, più che in altre zone, si respira atmosfera da letteratura alta, il tentativo di usare il fantastico solo come scusa per parlare di tutt’altre questioni. Dal post apocalittico alla suspense, ecco ci siamo ritrovati già a cavallo di due generi (e pensate che i Cro-Magnon vengono chiamati Sasquatch o Uomo delle nevi, horror docet). Ma le discussioni sulla genetica, di cui accennavamo, ci avevano già portato all’incrocio tra arte e saggistica scientifica. Ora voliamo ancora più alto. Verso fine racconto appare chiaro qual era il centro di tutto l’impianto: la discussione sul diverso, sull’Altro. Ho usato la maiuscola prendendola a prestito da Derrida, il maestro della decostruzione, uno di quelli che più amo da sempre. E Maxime stesso, coi suoi pensieri sulla diversità tra Cro-Magnon e Neandhertal, a condurci al filosofo francese. Cos’è il diverso, l’Altro? E forse qualcosa che sta di fronte a noi, di separato da noi? Certo che no: l’Altro siamo noi come direbbe Flaubert! Derrida va oltre: l’Altro è la categoria esistenziale perchè l’Io si strutturi.
Ne va del senso stesso dell’essere dell’Io. Senza l’Altro non c’è Io. L’altro e l’Io si rincorrono, si inseguono, si staccano e riallacciano in un’unione atemporale ciclica senza inizio e senza fine, nell’eterna catena dell’Essere. Questo intuisce a sprazzi Maxime. La caduta delle barriere tra Io e Altro. Che sono solo costruzioni occidentali, categorie utili per comunicare a livelli basici, come quelle classiche di spazio e tempo lineari (che sono invece ciclici). Maxime è un personaggio che porta dentro questo e altro ancora. Una scatola che richiede la collaborazione del lettore perche si disveli, perche si appalesi a noi, citando un termine caro a Severino, alétheia . L’autosvelarsi delle cose se noi glielo permettiamo.

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Secondo racconto.
Lo scenario è sempre post-apocalittico. Il ghiaccio ha ricoperto quel che resta del Canada e del pianeta Terra. Tre giovani protagonisti incrociano le loro strade. Mark, timido e buono, suo fratello Daniel, aggressivo, carismatico e la loro amica Martha, voce narrante. Daniel ha la capacità di aggregare gente con quelle poche conoscenze masticate un po’ qua un po’ là. E così diviene il leader di una nuova religione. Stupefacente la capacità dell’autore di gestire registri diversi. Se la prima storia era arzigogolata, barocca, questa è il suo esatto opposto. Breve, essenziale e di un’efficacia dirompente. Nel giro di poche pagine immagazziniamo le tre personalità dei protagonisti. In pochissime battute la situazione evolve. Il trio viene messo di fronte a scelte estreme, come estremo è il nuovo mondo nel quale sono costretti a vivere. Soprattutto Mark è dibattuto tra due sentimenti opposti. Da una parte l’amore per Martha. Dall’altra il senso di protezione verso Daniel, anche se intravede il suo lato oscuro. Il percorso di formazione che ad altri autori richiederebbe centinaia di pagine qui si svolge in un lampo. Come nei racconti di Carver, assistiamo a una tranche de vie, breve e fulminante. La telecamera inquadra solo quello che serve sapere al lettore un po’ prima e un po’ dopo la scelta. Niente inutili giri di parole e descrizioni. Anche la parola si fa essenziale, minimalista. Mark sceglie, e in questa scelta percepiamo quanto dolore comporti la condizione umana. Se nel primo racconto gli altri sono quasi alieni, qui l’altro è interno alla famiglia. In una inversione drammatica Lalumière ci mostra quanto ci sia estraneo il nostro stesso fratello, che sino a poco prima pensavamo di conoscere così bene.

Terzo racconto.
Ulteriore dimostrazione della varietà di armi in possesso dello scrittore. Qui lo stacco dai precedenti schemi è fortissimo. Siamo nelle zone di quello che oggi viene definito New Weird. Per intenderci, un ulteriore passo avanti nel mescolamento postmodernista dei generi. Autori di spicco sono Thomas Ligotti, Jeff Vandermeer, China Mieville, Charless Stross e Laird Barron. La varietà di questo genere è talmente tanta da non permetterne una sintesi in queste poche righe. Come fu per il cyberpunk, a cui idealmente si collega il New Weird per l’intento sperimentale, dissacratorio, gli autori stessi fanno fatica ad intendersi o non vogliono farlo. Di solito sono testi di non facile lettura. Fa eccezione Stross col ciclo della Lavanderia, che mira ad aspetti di puro intrattenimento, anche se mai banali. Ecco, accomunerei il nostro a quest’ultimo. In un’ambientazione solo vagamente fantascientifica, assistiamo ad un disvelamento della vera realtà sotto le apparenze. Abbandonato il tono drammatico entriamo nella farsa grottesca, cinica, quasi perturbante, direi. Questi alieni mai descritti adottano degli “strani” bambini. Non posso spoilerare, ovviamente. Chi siano gli alieni e i bambini, e a che cosa servano i secondi, lo lascio scoprire al lettore. In un ribaltamento delle prospettive che non può non riportarci alla mente La sentinella di Fredric Brown, scopriamo ancora una volta cosa vuol dire immedesimarsi con l’altro. A mano a mano che proseguiamo nella lettura, e che in noi aumenta il disgusto grottesco, percepiamo quanto in là si può spingere la diversità tra popoli diversi. E quanto la normalità altrui può creare dolore e caos in noi.

Ma, per ora, mi taccio.

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