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Recensione : Not Moving – That’s all folks!

“When you went this way
I went that way
Where are we going?
We’re not moving
Not moving, not moving!”

Esistono canzoni (e versi di canzoni) che possono rappresentare l’anello di congiunzione tra l’inizio e la fine del ciclo vitale musicale di una band, di un movimento e/o di una stagione artistica. Nel caso del succitato testo, parte integrante del brano “Not Moving” dei DNA di Arto Lindsay (e presente nella seminale compilation “No New York” del 1978, disco-manifesto, curato da quel bravo guaglione di Brian Eno, che documentava l’esplosione dell’underground controculturale della “no wave” nella Grande Mela) si può affermare che il titolo di quel pezzo abbia dato l’ispirazione per i natali del moniker di una delle storie più incredibili del panorama R’N’R indipendente italiano, quella dei Not Moving.

Not Moving - That'S All Folks! Not Moving Pic 2

Una parabola cominciata nel lontano 1981 (che, nel corso della loro turbolenta ed elettizzante avventura, tra mille vicissitudini, oltre ad aver lasciato un solco ispirazionale profondo nelle band e in diversi musicisti della scena nostrana underground “alternativa” e non, ha visto i nostri anti-eroi guadagnarsi anche la stima di gente come John Peel e Jello Biafra e condividere il palco con Johnny Thunders, Clash, Celibate Rifles, Iggy Pop and the Stooges, Damned e Buzzcocks, tra gli altri) e che, al termine del tour a supporto del loro nuovo – e, purtroppo, ultimo – studio album, “That’s all folks!” (titolo decisamente emblematico, ahinoi…) giungerà alla sua definitiva conclusione, come affermato dagli stessi membri del gruppo, il batterista e percussionista Antonio “Tony Face” Bacciocchi, la frontwoman Rita “Lilith” Oberti e il master of guitar riffs Dome La Muerte, autentici pilastri della storia del rock ‘n’ roll (lo so, fa molto “matusa” dirlo, però è vero) del nostro sgangherato Paese.

Difficile trovare le parole giuste per descrivere le sensazioni personali provate ascoltando “That’s all folks!” (uscito su La Tempesta Dischi/LaPOP Music) ma si può riassumere in questo modo: un turbinio di emozioni contrastanti, tra l’entusiasmo nel godere di nuovo materiale sfornato dall’ensemble tosco-emiliano (arrivato a tre anni di distanza da “Love Beat“, il disco che aveva dato ufficialmente forma compiuta alla reunion di quasi tutta la line up “storica” a tre decenni abbondanti dall’ultimo Lp insieme) e l’inevitabile alone di tristezza che deriva dalla consapevolezza di avere tra le mani (e i timpani) un’opera concepita per essere un commiato (anche se l’auspicio di tanti fan ed estimatori è sempre riposta nella speranza che Tony, Rita e Dome in futuro cambino idea e ci ripensino…) perché il rock ‘n’ roll salva la vita, ma in cambio ti chiede il cuore, la carne e certe scelte di vita da sacrificare per inseguire una strada lastricata di soddisfazioni, ma anche di sadica precaritetà e quintalate di merda da ingoiare per tirare avanti e tenere viva la scintilla nonostante i problemi, ma purtroppo il tempo passa per tutti e non fa sconti a nessuno.

Per l’ultimo giro sull’ottovolante della “musica del demonio”, il trio (coadiuvato, in studio, alla chitarra e backing vocals da Iride Volpi, che però in sede live verrà sostituita da un nuovo chitarrista, Marco Murtas) mette tutto se stesso nei dieci brani che compongono il mosaico sonoro del long playing – che, in copertina, ripropone il classico logo della band in copertina, disegnato nel 1986 dal designer Eddie King “Left-Hand Luke” – omaggiando tutta la musica che ha forgiato il sound dei Not Moving: in primis, le radici primordiali del blues da cui tutto è partito, e scelgono di coverizzare, in apertura delle danze, Blind Willie Johnson con “Soul of a man“, reinterpretandola con personalità, e dilettandosi nel rifacimento di “The devil with the blue dress on” di Shorty Long /William Stevenson (azzeccati e gradevoli gli interventi al piano/hammond dell’ospite Paolo “Apollo” Negri). C’è la passione mai sopita per gli Stones, e il singolo “But it’s not” è più rollingstoniano che mai (con un plus del cuore mod Tony Face all’attacco iniziale di batteria pensato come un ricordo di Rick Buckler, batterista dei Jam recentemente scomparso). C’è il Bo Diddley beat che copula con “1969” degli Stooges in “Bo Diddley doing something“. Ci sono i Doors più bluesy e swinganti dell’ultimo periodo Morrisoniano nella liricamente intensa “Wyoming girl“. Ci sono gli immancabili numi Gun Club (periodo “Las Vegas story“, senza dimenticare anche gli adorati losangelini X) in “Saphran road“. C’è l’atmosfera depravata e decadente della New York notturna dei Sixties/Seventies dei Velvet Underground in “Ray of sun” (con tanto di sitar suonato dal man in black Dome). C’è il dark-punk Crampsiano in “Once again” che riassume, nel testo, la storia d’amore travagliata vissuta dal combo in quattro decenni come una sorta di famiglia allargata, tra liti, conflitti, libertà artistica, amicizie, amori e rancori, scioglimenti e ricongiungimenti, in un continuo saliscendi tra felicità e la guerra quotidiana con se stessi e le proprie contrastanti emozioni, ma sempre alla ricerca di un riscatto, perché poi ci si riconcilia (“On my side“). Lilith interpreta ogni canzone con piglio fiero e coinvolgente trasporto, Antonio è sempre garanzia di precisione, essenzialità e solidità alla batteria, Dome è LA leggenda del rock ‘n’ roll italiano tutto, il figlio che Keith Richards avrebbe voluto avere. E il sipario cala proprio con la declamazione di “Not Moving” dei DNA, a chiudere idealmente il cerchio (che, dopo il premio Ciampi alla carriera del 2023, arricchirà i riconoscimenti al gruppo col “Premio Lucca Underground Festival” per la diffusione della cultura Underground) con la citazione del gruppo di Lindsay che – nella parole di Rita – alla fine non ha mai avuto nulla a che fare con la musica dei pisano-piacentini, ma piaceva l’idea che un gruppo come i Not Moving, che ha fatto del “movimento” sul palcoscenico e nella sua musica uno dei tratti principali, avesse un nome che dice l’esatto contrario.

Not Moving - That'S All Folks! Not Moving Pic

Everything ends here. La rock ‘n’ roll band italiana più vera, coerente e figa di sempre – senza tema di smentite – ci regala un ultimo brivido elettrico, il tributo finale al loro lungo e onestamente integro percorso musicale ed etico, salutando le scene con un album grintoso e compatto, senza i clamori mediatici (dai nostri sempre schivati, a dire il vero, di conseguenza senza mai essere riveriti “istituzionalmente” dal mainstream, e anche questa loro ritrosia al sapersi vendere al pubblico e all’autocelebrarsi, in antitesi con la mentalità da rockstar, li ha resi diversi dalle masse e una cult band propriamente detta) riservati ad altre formazioni italiche a loro contemporanee (che in tempi recenti hanno scoperto che ci si può garantire un piano pensionistico monetizzando sul revival della nostalgia del passato: i Not Moving non lo hanno mai fatto) in cui ha condensato tutte le influenze, gli amori e gli ascolti di una vita intera, centrifugandoli con la consueta maestria da raffinati artigiani. “That’s all folks!“, come la sigla al termine degli episodi dei vecchi cartoni animati. E ora basta scrivere, la chiudo qui, altrimenti mi scende una lacrimuccia, e noi “professionisti” (???) “addetti ai lavori” (maddeché!) non possiamo permettercelo e dobbiamo contenerci (“Ma a te il punk non ti ha insegnato un cazzo?” come direbbe Lilith). Solo un grosso GRAZIE per tutto quello che i Not Moving (con e senza LTD) hanno rappresentato per intere generazioni di ascoltatori e fan: non solo una band, ma gente verace, umile e genuina che non si è mai risparmiata e ha sempre avuto una determinata idea di rock ‘n’ roll (una vita trascorsa sui palchi a diffonderne il suo lato più oscuro e dannato, tanti concerti selvaggi in cui “tutto poteva accadere”) da vivere come un sogno esistenziale ribelle e passione senza compromessi (dalle prove nei cascinali sperduti nella nebbia della pianura padana ai viaggi interminabili, dall’esibirsi in club con pochissima gente fino al suonare per oltre diecimila persone in apertura ai Clash, sempre con la stessa credibilità) che divora l’anima e offre una eccitante e tortuosa alternativa alla “retta via” che la società ha destinato per il gregge inquadrato che deve mettere la testa a posto (e sotto la sabbia). Lo spirito black ‘n’ wild continuerà a bruciare per sempre.

TRACKLIST

1. Soul of a man (Blind Willie Johnson)
2. But it’s not
3. Wyoming girl
4. Saphran road
5. The devil with the blue dress on (Frederick Long/William Stevenson)
6. On my side
7. Bo Diddley doing something
8. Once again
9. Ray of sun
10. Not Moving (lyrics by Arto Lindsay)

LINE UP

Rita “Lilith” Oberti: vox
Dome La Muerte: guitars, sitar
Antonio Bacciocchi: drums, percussion, tablas
Iride Volpi: guitars, backing vocals

Guests:
Paolo “Apollo” Negri: piano, Hammond, keyboards
Lorenzo De Benedetti and Martin Ignacio Isolabella: backing vocals

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