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Recensione : Sabato Sera

Sabato Sera: di Carlo Galiero Si incontrarono alle nove e mezza sotto la statua di Dante. Nunziatina pa...

Sabato Sera

di Carlo Galiero

Si incontrarono alle nove e mezza sotto la statua di Dante.
Nunziatina pareva asciut’ a int’ a televisione: il rossetto ‘nfocato, i cerchi brillanti, le scarpe argentate e la giacca Dolce e Gabbana la facevano tale e quale ad Alessia di uomini e donne. Era na bomba.
Genny s’era fatt nu capill esagerato. Come Hamsik ma no a punta, aveva detto al barbiere quella mattina. E poi s’era sparato na giacchetta e’ pelle ch’era a fine do munn. Certo non era caldissima, Genny lo sapeva, e infatti quando un’ora prima era uscito di casa aveva evitato lo sguardo e’ mammà, prima che questa potesse costringerlo a mettersi qualcosa di più pesante. Era un febbraio molto freddo per Napoli, facevano tre gradi.
Ma Genny il freddo non lo sentiva. Quella sera era la sera. Aspettava da un mese. Aveva pregato, pregato e pregato. C’era mancato poco che non perdesse la pazienza e mandasse Nunziatina affanculo. E’ cumpagn do rione glielo dicevano di lasciar stare, che quella Nunziatina era troppo na brava uagliona, che la domenica andava a messa e certe cose nunn’ è ffaceva. Però Genny stava preso, teneva a capata storta per quella uagliona. Prima cosa perchè Nunziatina era veramente bellella. Seconda cosa perchè era vergine, e come dicevano e’ cumpagn do rione quando una è vergine è cchiù bell, perchè è bell a’ffa male.
Si baciarono con passione, e Genny sentì il sapore della gomma di Nunziatina ancora forte. La prese per mano e cominciarono a camminare per via Toledo, in silenzio.
Tien’ famm?
Le chiese dopo qualche minuto.
No ammo, agg’ magnat e quatt.
T’iè magna na cosa. Si nun è cenato t’iè magna na cosa.
Ma si nun teng famm.
O’saccio, ma è meglio si te magn na cosa si poi amma’ fà ammore.
Nunziatina si arrese a quell’ultimo argomento. Si lasciò comprare un hot dog da un ambulante e lo mangiò sotto lo sguardo attento del fidanzato, mentre continuavano a camminare,
Si infilarono nei vicoli dei quartieri spagnoli, facendosi largo tra la folla di giovani e motorini che si dedicavano allo struscio del sabato sera. Quando passava Nunziatina s’avotavano tutti quanti; Genny era al settimo cielo. Sapeva perfettamente dove andare; guidò la ragazza all’interno di un cortile, in uno di quei vecchi palazzi ottocenteschi pieni di macchine e motorini parcheggiati. In un angolo una piccola insegna luminosa indicava una porta. Genny la superò e si avvicinò alla reception dell’albergo a ore.
Documenti.
Fu la prima cosa che disse il receptionista, un uomo tarchiato con pochi capelli unti tirati all’indietro. Genny mostrò la sua carta d’identità.
E a uagliuncella?
Se l’è scurdat a casa.

immagine di Enrico Mazzone

Rispose prontamente Genny. Nunziatina era rimasta alle sue spalle, in silenzio.
Uagliò a chi vuo fa rirere?
Disse il receptionist leggermente seccato. Genny provò ad insistere ma l’uomo si rivolse direttamente alla ragazza:
Uagliuncè, rispunn a’mme. Sì minorenne?
Nunziatina esitava. Bastò questo per fugare i dubbi del receptionista.
Erano di nuovo fuori in mezzo ai vicoli, e Genny si arrovellava il cervello per cercare una soluzione. Se solo avesse avut’na machina. I compagni che già tenevano la patente non avevano problemi, chiavavan tutt’e iourne. Un cinema? Il sabato erano troppo pieni. Un parcheggio? Ci poteva stare. Ma aveva già preso la strada del parcheggio Brin, dove quando era ninnillo si andava a spiare le coppie dentro alle machine, che il rombo di un tuono annunciò la tempesta imminente. Bestemmiò. Con la pioggia l’ipotesi parcheggio si faceva impraticabile. Restava solo una soluzione.
Quanta uaglione e’ purtat dint’all’albergo?
Chiese all’improvviso Nunziatina, riuscendo finalmente a trovare il coraggio per fare quella domanda.
Cinque, sei, mo nun m’arricuord ammò.
Rispose Genny distrattamente.
Arrivarono le prime gocce, e Genny si riparò in fretta sotto un portone perchè a giacchetta e’pelle si poteva rovinare. Nunziatina aprì in fretta il suo ombrellino argentato per coprire il suo innamorato.
E mo addo iamm?
Lascia fare.
Camminarono per circa un quarto d’ora prima di raggiungere la stazione centrale. Scesero le scale che portavano alla fermata della circumvesuviana, finalmente al coperto. Scavalcarono i tornelli chiusi, e scesero ancora di un piano inoltrandosi nel cuore della stazione. Poche luci al neon illuminavano quattro file di vecchi binari che s’arricordavano o cipp a forcella, come diceva il padre di Genny. Su uno di questi un treno, vecchissimo pure lui, con la vernice verde scrostata e le pesanti ruote arrugginite. Si sentiva lontano il rumore della pioggia sempre più insistente.
Amma pruva a trasì.
Attraversarono i binari fino alla banchina opposta; risalirono e raggiunsero le porte del treno. Era completamente buio dentro, e le porte erano chiuse.
Genny provò a sollevare la maniglia di una di queste, ma invano.
Aspiettam ccà, nun te movere.
Me lass’ accussi?
Mo vengo, nun te metter appaura.
Disse il ragazzo incamminandosi verso l’uscita, lasciando Nunziatina alla porta del treno intirizzita dal freddo e spaventata. Mentre guardava il fidanzato sparire oltre le scale alla fine della banchina, tirò fuori il cellulare e provò a distrarsi scorrendo un paio di foto.
Genny non avrebbe mai voluto lasciare Nunziatina in quelle condizioni; era abbastanza sicuro che se si fosse venuto a sapere dint’o rione, l’avrebbero messo in croce per una vita. Ma aveva una sola possibilità per aprire le porte del treno, ed era trovare o marchese. O Marchese era un barbone piuttosto conosciuto: un mezzo matto che latitava fra piazza del gesù e la pigna secca, un vecchio ubriacone; uno che aveva un sacco di video su youtube senza neanche saperlo. Ma faceva schiattà, quando si ubriacava sul serio dava spettacolo. Diceva di essere un marchese, e non era detto che non fosse marchese veramente.
Genny fu fortunato; lo trovò al piano di sopra in mezzo a un groviglio di cartoni e lattine di birre vuote.
O marchè!
Disse piano, per non farlo spaventare.
Che è stato?
O Marchè t’aggia cerca nu favore. Aggia trasì dinto treno ccà abbascio.
Cammina uagliò.
E iamm o Marchè.
Cammina.
T’accatto ddoie litri e vino.
Gragnano?
Eh.
Verimmo nu poco.
Così il marchese si alzò dal suo nido di cartoni, e ancora intontito scese al piano di sotto della stazione insieme a Genny.
Signorina bella buonasera!
Disse a Nunziatina appena la vide. Poi raggiunse la vettura di testa, tirò una maniglia ed entrò. Una volta dentro non si sa bene come – Genny non lo vedeva più – ma riuscì ad azionare tutte le porte, senza tuttavia che le luci del treno si accendessero.
A luce?
Gli chiese Genny appena il marchese fu tornato sulla banchina. Quello si mise a ridacchiare.
E si mo te puort pure ddoie candele.
Vabbuò vabbuò. Grazie o Marchè
E o vin?
Pigliet e sord.
No.
E perchè?
Stong chin e debiti co’ bar. Nun me rann manc nu bicchiere d’acqua.
C’era poco da fare. Genny doveva andare personalmente a comprare il vino. Questa volta portò con sè Nunziatina; uscirono dalla stazione, si infilarono nel primo bar. Comprarono due bottiglie del peggior Gragnano e poi tornarono in stazione. La pioggia non aveva mai cessato di battere.
Una volta liquidato il conto con il Marchese, finalmente Genny e Nunziatina rimasero soli. Salirono sul primo vagone, era completamente buio. C’era puzza di umanità, di quando i vagoni non vengono lavati per giorni.
Si sistemarono su una coppia di sedili di plastica. Nessuno dei due diceva nulla.
Genny cominciò a sbottonare la giacca di Nunziatina, che ebbe un tremito.
E’ o fridd.
Si giustificò subito dopo.
Con le mani che avanzavano a tastoni nel buio, Genny si era messo ora a sbottonarle la camicietta, fino a quando non trovò sotto le mani il suo seno morbido e caldo.
Si mise a baciarla, nel pieno dell’eccitazione, e nel frattempo continuava a svestirla.
Le aveva sfilato la camicetta quando senza nessun preavviso e con uno forte stridio le porte del treno si chiusero.
Per qualche secondo nessuno disse nulla, erano rimasti immobili, le orecchie tese per capire se ci fosse qualcuno giù alla banchina. Sembrava di no.
Meccanicamente Genny riprese da dove aveva iniziato, ma questa volta Nunziatina lo trattenne.
E mo comm facimmo?
Comme facimmo che?
A tturnà a casa.
Nun te preoccupa e pport s’arapan.
E si nun s’arapan?
Nun ce pensa.
No io ce penso.
Genny sbuffò. Si alzò dal sedile e raggiunse la porta del vagone più vicina per mostrare alla ragazza che non erano bloccati dentro. Alzò la maniglia ma non successe nulla. Erano bloccati dentro.
Maronna. Gemette Nunziatina, mentre Genny provava a forzare la porta. Ma non c’era niente da fare.
Maronna che scuorno, che scuorno Genny. Comme facimm ccà fino a ddomani?
E quando saglie a ggente? Che dicimm? Maronna che scuorno.
Per lei era troppo. Continuò a piagnucolare e lamentarsi per una buona mezz’ora. Tutti i tentativi di Genny di aprire la porta o sfondare i vetri erano falliti. Il meccanismo d’emergenza era inceppato, si era pure fatto male una mano cercando di sfondare un finestrino.
In quel momento capì che quella sera non sarebbe stata la sera. Avrebbe potuto arrabbiarsi e lamentarsi, magari mettersi a litigare con Nunziatina che in maniera implicita gli stava dando dell’idiota in quel momento. Ma aveva ragione, a colpa era statta tutta soia. Si rassegnò. Tornò al sedile vicino a quello di Nunziatina, cercò di calmare le sue proteste, la rassicurò, le disse che sarebbero scappati appena le porte si fossero aperte la mattina dopo, che così nun nè vvedeva nisciun.
Si accorse che Nunziatina aveva freddo, e la coprì con la sua giacchett’ e pelle.
Nunziatì, sussurrò quando capì che stava per addormentarsi.
Chè?
Nun te mettere appaur si ssi vergine.
Nun me metto appaur.
Brava.
Poi lasciò passare qualche secondo, cercando le parole giuste.
Nunziatì
Chè ammo?
So vergine pure io.
O saccio ammò. O saccio.
E si addormentò, con la testa sulle gambe del fidanzato che era rimasto in maniche di camicia. Genny le accarezzò la testa al buio, poi si preparò ad affrontare la notte.

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